La cina vuole dare un cervello ai robot, ma la vera guerra è tra intelligenze

Nel cuore sempre più caldo della guerra fredda tecnologica, Pechino ha svelato il suo nuovo gioiello: RoboBrain 2.0, il “cervello” open-source pensato per colonizzare le menti—pardon, i circuiti—dei robot cinesi. Una mossa che, se letta con lenti geopolitiche e una certa vena di cinismo ingegneristico, sa meno di innovazione e più di controffensiva. Sotto la patina dell’entusiasmo scientifico e delle promesse di collaborazione industriale, si cela l’inizio di un nuovo capitolo nell’eterna partita tra intelligenza naturale, artificiale e, soprattutto, geopolitica.

Il Beijing Academy of Artificial Intelligence (BAAI) gioca d’anticipo. Con un lessico che sa di startup ma una postura da think tank governativo, ha lanciato un pacchetto di modelli AI pensati non solo per far muovere meglio i robot, ma per farli “pensare” come i loro progettisti desiderano. RoboBrain 2.0 promette una spatial intelligence più raffinata (vedi alla voce “non sbattere contro i muri”) e una capacità di pianificazione che permette alle macchine di scomporre attività complesse in sequenze logiche, autonome, ottimizzate.

Ma il vero nodo non è tecnologico: è strategico.

Il tempismo è tutto. Questo lancio arriva proprio mentre la Cina accelera nella corsa ai robot umanoidi, cercando di industrializzare l’ultima frontiera della meccatronica con uno sguardo ossessivamente fisso sull’Occidente. Lo scenario è chiaro: Pechino vuole che le sue macchine abbiano cervelli locali, liberi dalle dipendenze di chip o software statunitensi. Non a caso, l’inserimento di BAAI nella famigerata Entity List americana lo scorso marzo ha reso ancora più urgente lo sviluppo di modelli proprietari, scalabili e, soprattutto, non controllabili da Washington.

“È stato un errore”, ha detto Wang Zhongyuan, direttore dell’istituto, riferendosi al ban americano. Ma in realtà, come spesso accade, l’errore per uno è l’opportunità per un altro.

RoboBrain 2.0 è parte di una suite più ampia, chiamata con la solita vena poetica tech Wujie (qualcosa come “senza confini”): dentro ci troviamo anche RoboOS 2.0, una piattaforma cloud per distribuire modelli AI per robotica, e Emu3, un multimodale capace di comprendere e generare testo, immagini e video. E proprio qui si comincia a scorgere il piano vero: creare un ecosistema completo, verticale e soprattutto cinese per l’AI incarnata (embodied intelligence, nel gergo post-umanista delle presentazioni PowerPoint).

Per chi conosce l’evoluzione del software, il parallelo è scontato: BAAI vuole fare quello che Android ha fatto per gli smartphone, ma con i robot. A dichiararlo non è una voce esterna, ma i rivali diretti: il Beijing Humanoid Robot Innovation Centre, quelli del robot maratoneta Tien Kung (che ha davvero vinto una mezza maratona ad aprile, un dato così surreale da sembrare marketing di Philip K. Dick), hanno lanciato la piattaforma Hui Si Kai Wu con un solo obiettivo: diventare l’Android dei robot umanoidi.

Il problema è che per diventare Android, servono due cose: ubiquità e interoperabilità. Il codice sorgente, per quanto open, è solo il primo passo. La sfida vera sarà standardizzare l’intelligenza dei robot attraverso una piattaforma capace di scalare su milioni di corpi diversi: dalla gamba meccanica del magazziniere automatico al braccio chirurgico che taglia e cuce tessuti umani con una mano più ferma di qualsiasi chirurgo giapponese.

Nel frattempo, la diplomazia high-tech corre parallela allo sviluppo scientifico. Venerdì scorso, BAAI ha annunciato una partnership strategica con la Hong Kong Investment Corporation. Capitale, talenti, tecnologia. Tre parole che suonano molto Silicon Valley, ma che in questo caso fanno parte di una ricetta molto più asiatica: controllo centralizzato con estetica di mercato.

Un dettaglio passato inosservato a molti: molti ex-dipendenti di BAAI hanno fondato proprie startup AI, in una diaspora interna al sistema che ricorda quella che accadde con i primi ingegneri di Baidu o Alibaba. Ma questa volta, a differenza degli anni 2010, non si tratta solo di e-commerce o motori di ricerca. Qui si gioca con il fuoco dell’autonomia cognitiva delle macchine.

Mentre oltre 300 esperti, scienziati e manager di big tech cinesi—Huawei, Tencent, Baidu, Zhipu AI—sfilavano a Pechino tra panel e demo, il messaggio era chiaro: la Cina non si accontenta più di replicare, vuole definire gli standard. Non solo rispondere a ChatGPT, ma creare il framework dentro cui nascerà la prossima generazione di agenti cognitivi artificiali.

Eppure, nel mezzo di tutta questa euforia programmata, un dato merita attenzione: il 74% di miglioramento in accuratezza rispetto alla versione precedente è avvenuto in soli tre mesi. Un salto evolutivo di questa portata non è solo indicatore di bravura tecnica, ma anche di pressione sistemica. Non si corre così se non si è braccati o se non si ha una direzione politica molto precisa.

Insomma, se i robot cinesi stanno per ricevere un cervello nazionale, la vera domanda non è se saranno intelligenti. Ma per chi lo saranno. Perché quando l’AI entra nei corpi, smette di essere neutra. E inizia a scegliere. Magari chi salvare in un crollo, o cosa censurare in un’interazione, o quali istruzioni privilegiare quando due comandi sono in conflitto.

Come diceva Alan Turing, “una macchina può fare qualsiasi cosa… che noi possiamo descrivere”. Ecco, i cinesi hanno appena descritto la loro visione. E stanno costruendo le macchine per farla accadere.