Federico Faggin, l’uomo che vide il futuro – Video
Un documentario dedicato a uno dei personaggi del nostro tempo, Federico Faggin, fisico, inventore e imprenditore italiano, venerato nella Silicon …
C’è una strana ironia nel fatto che l’uomo che ha dato un’anima al silicio stia passando gli ultimi decenni della sua vita cercando l’anima dell’uomo. Federico Faggin, fisico, inventore, imprenditore, ma soprattutto visionario, è stato celebrato nel documentario L’uomo che vide il futuro, firmato da Marcello Foa. Un titolo che potrebbe suonare esagerato.
La Silicon Valley lo ha conosciuto prima come l’ingegnere che progettò il primo microprocessore – l’Intel 4004 – poi come imprenditore ribelle che fondò Zilog, infine come anticipatore delle interfacce tattili, molto prima che l’iPhone ci convincesse che il dito fosse il nuovo mouse. Ma chi è davvero Faggin?
Nato a Vicenza, ma trapiantato nella California di Steve Jobs e della controcultura, Faggin è uno di quegli italiani che gli americani credono siano americani. La sua storia – che parte da un istituto tecnico a Padova e passa per la Olivetti, con approdo finale alla mecca dell’innovazione – è il perfetto copione da docufilm. Ma non è il solito apologo sull’italiano geniale e misconosciuto. No, qui si scava più in profondità. Perché Federico, a un certo punto, ha chiuso con i chip per occuparsi della coscienza.
Sì, proprio quella: la coscienza, la scintilla che ci rende umani, l’elemento non misurabile che tiene svegli i filosofi e infastidisce gli ingegneri. Ma lui è stato entrambi.
Nel documentario – che approda su Rai 3 e su RaiPlay, là dove le menti giovani e curiose ancora osano esplorare senza scrollare troppo in fretta – non si celebra solo l’inventore. Si tenta di raccontare l’uomo. Quello che, dopo aver fatto la storia della tecnologia, si è chiesto se tutto questo servisse davvero a qualcosa, se non fosse solo un sofisticato balletto di elettroni in cerca di un senso.
E la risposta, manco a dirlo, non è nei numeri binari.
Il pregio del racconto di Foa non è solo la linearità della narrazione – impeccabile, didascalica il giusto – ma la capacità di restituire lo spessore interiore di Faggin, il suo “inquieto ottimismo”, come è stato definito. Un’inquietudine da scienziato mistico, da hacker dell’anima. L’uomo che ha messo le mani nei circuiti ha deciso, negli anni della maturità, di mettersi alla ricerca di un ponte tra fisica quantistica e coscienza, tra il bit e il sé. Come se Alan Turing si fosse reincarnato in un monaco zen col PhD in fisica.
Il paradosso è che l’umanità, oggi, lo sta raggiungendo. O almeno ci prova. Mentre gli algoritmi generativi ridisegnano i confini del possibile e l’Intelligenza Artificiale si prepara a colonizzare i nostri flussi cognitivi, Faggin ci ammonisce: “L’intelligenza artificiale non ha coscienza. Non sceglie tra il bene e il male. Non ha etica intrinseca. Esegue”. Fa eco alla voce di un altro grande profeta travestito da imprenditore, Jaron Lanier, che ci ricorda che i big data non sono saggezza, sono solo passato aggregato.
Ma il problema non è la tecnologia. È la nostra pigrizia etica, il nostro abbandono al culto della performance e del controllo. La macchina non sbaglia: semplicemente non sente. E questo dovrebbe bastare a definire la differenza.
Nel docufilm, le invenzioni di Faggin non sono solo mostrate, sono contestualizzate nel quotidiano: dal microprocessore che ha permesso la rivoluzione digitale, ai primi touchpad che hanno cambiato il modo in cui interagiamo con le macchine. Ma la vera invenzione di Faggin è quella meno vendibile: una teoria della coscienza che osa dire, con rigore da fisico, che la mente non si riduce a un algoritmo.
“Il materialismo scientifico è una religione dogmatica”, ha detto Faggin collegato da Palo Alto, con la connessione ballerina come se la rete volesse ricordarci che è fatta ancora di hardware. “Lo scientismo elimina la spiritualità a priori, e così facendo fa un disservizio all’umanità”.
Una posizione che lo colloca fuori dagli schemi. Troppo spirituale per i fisici teorici, troppo tecnico per i guru new age. Ma forse proprio per questo necessario. Perché nel tempo in cui le intelligenze artificiali si moltiplicano come batteri iperlogici, servono umani che si ricordino cosa significa essere umani.
Alla fine della proiezione, in una sala della Camera dei Deputati insolitamente densa di ascolto, nessuno ha osato banalizzare con il solito “dobbiamo investire di più nella ricerca”. No, qui si è toccato qualcosa di più profondo: l’urgenza di una nuova consapevolezza. Che non può essere delegata agli ingegneri, né ai politici. Tocca a noi. Tocca a chi usa, sviluppa, approva, integra. E perfino a chi, per comodità, ignora.
Il documentario si chiude, ma le domande restano aperte. Ecco l’effetto “scroll magnetico” di cui parlavamo: impossibile distogliere lo sguardo da una figura che incarna in modo così radicale la sintesi tra sapere tecnico e intuizione spirituale. Federico Faggin non è solo un protagonista della rivoluzione digitale. È la prova vivente che il futuro, se non ha un cuore, è solo una distopia ben programmata.
E il microprocessore? Sì, certo. Ma la vera invenzione di Faggin è il coraggio di pensare l’impensabile, di dire che l’uomo viene prima della macchina. Anche quando tutti applaudono il contrario.
Federico Faggin, l’uomo che divise il futuro
“Divisivo”, sì. Per chi ha bisogno di semplificare i fenomeni complessi in etichette rassicuranti, Federico Faggin è inevitabilmente un personaggio divisivo. È un paradosso vivente: il creatore della macchina che pensa, e insieme il filosofo che ci ricorda che no, non penserà mai davvero. Un pioniere della Silicon Valley che, a differenza di molti altri, non è rimasto incatenato al suo stesso mito, ma ha avuto il coraggio – e l’ardire intellettuale – di rinnegarne il dogma centrale: che la coscienza sia una funzione computabile.
In un mondo dominato dal culto della tecnologia come salvezza, dove ogni nuovo algoritmo viene accolto con lo stesso fervore con cui un tempo si attendeva il messia, Faggin fa il bastian contrario. Lo fa con stile sobrio, mai ideologico, ma affilatissimo. E questo infastidisce. Divide. Scomoda. E in fondo, consola anche chi non ha mai creduto che la mente umana potesse essere un derivato lineare di un processore a 3 nanometri.
Nessuno mette in dubbio il suo genio tecnico. L’invenzione del microprocessore all’Intel nel 1971 – e sì, lui lo ha davvero progettato e costruito con le sue mani – ha cambiato la storia. Ma ciò che lo rende così unico, e per alcuni indigesto, è il suo percorso dopo. Mentre la Silicon Valley alzava templi ai nuovi dei digitali, Faggin prendeva un’altra strada. Una via eretica. Dal codice alla coscienza, dalla fisica dei transistor alla fisica quantistica, fino ad arrivare a qualcosa di ancora più imperdonabile per i sacerdoti dell’algoritmo: la spiritualità.
Ed è qui che il personaggio si fa divisivo davvero.
Non perché sia un ciarlatano – non lo è, e chi lo accusa di questo si rivela, in fondo, troppo nervoso di fronte a un pensiero che non può controllare – ma perché è uno scienziato che osa dire “non so”. E osa dire “c’è qualcosa oltre la materia”. Parla di coscienza come entità originaria, di esperienza soggettiva come fondamento, non come scarto. Un sacrilegio per i tecno-entusiasti che vedono l’IA come inevitabile destino e la mente umana come un’interfaccia difettosa da migliorare.
Dunque sì, divisivo. Perché non rientra nei cliché. Non è il classico italiano che ha fatto fortuna all’estero e si compiace della nostalgia. Non è nemmeno il boomer che pontifica su “quando si stava meglio prima”. È uno che continua a farsi domande. In un’epoca in cui si premia chi dà risposte rapide, magari sbagliate ma a effetto, Faggin si prende il lusso aristocratico di dubitare. E lo fa nel modo più pericoloso: con cognizione di causa.
Non ci sono molte figure oggi che sappiano tenere in equilibrio scienza, tecnica e coscienza senza scadere nel feticismo né nel complottismo. Faggin ci riesce. Ed è proprio per questo che divide: perché non offre soluzioni facili, ma mette in crisi le categorie con cui giudichiamo l’innovazione. Ci ricorda che l’intelligenza artificiale, se non è accompagnata da una coscienza naturale, rischia di diventare solo uno specchio deformante delle nostre stesse inconsapevolezze.
“La coscienza non è un algoritmo”, dice. E in quella frase si consuma tutta la frattura con l’ideologia dominante. Ma anche la speranza – minoritaria, certo – che la tecnologia possa ancora servire l’uomo, e non plasmarlo a sua immagine.
Federico Faggin è divisivo, come lo sono tutti i grandi innovatori che non si lasciano ingabbiare dal proprio passato. Come lo sono gli scienziati che si permettono il lusso della spiritualità, e i filosofi che capiscono l’ingegneria. Come lo sono le figure veramente libere.