Non è solo una timeline sospesa tra proroghe e minacce di ban: è un reality geopolitico in salsa algoritmica, un paradosso digitale in cui il soft power cinese incontra la paranoia regolatoria americana. TikTok, con i suoi 170 milioni di utenti statunitensi, ringrazia ufficialmente Donald Trump per il rinvio del verdetto finale al 17 settembre. Ma sotto il velo cerimoniale del “grateful”, il destino della piattaforma resta congelato, ostaggio di un doppio veto incrociato: Washington che vuole vendere e Pechino che deve approvare.

J.D. Vance, il vicepresidente incaricato di trasformare questo matrimonio forzato in un divorzio consensuale, è sparito dai radar da marzo. Allora prometteva una chiusura entro aprile. Oggi, a giugno inoltrato, siamo all’ennesimo rinvio – il secondo da gennaio. Un gioco dell’oca dove ogni casella è una crisi commerciale tra USA e Cina.

Intanto, la Cina tace ufficialmente, ma agisce strutturalmente. Dal 2020, due tecnologie core utilizzate da TikTok – leggi: il sacro Graal dell’algoritmo di raccomandazione e le sue interfacce IA – sono sottoposte a una lista di esportazione strategica. Serve il timbro di Pechino per portarle oltre la Muraglia Digitale. E se si pensa che quella lista sia solo una mossa tecnica, ci si sbaglia di grosso: è una pistola sul tavolo, puntata contro le ambizioni di controllo americano sull’infrastruttura soft cinese più penetrante a livello globale.

Trump, intanto, gioca a scacchi con sé stesso. Da un lato, è tornato a flirtare con TikTok – dopo averne chiesto il bando nel primo mandato – e ha costruito lì una base di oltre 15 milioni di follower. Dall’altro, cavalca il nazionalismo tecnologico, sostenendo che “probabilmente la Cina darà l’approvazione” ma senza mai smettere di evocare lo spettro dell’influenza straniera sui dati americani. Un esercizio di equilibrismo più teatrale che strategico.

Ma il vero nodo gordiano sta nella possibilità – sempre più concreta – di una TikTok biforcuta, come la chiamano gli analisti. Un TikTok americano separato dal suo gemello globale, geofenced, cioè murato dentro i confini USA. Niente più creatori globali, trend condivisi, viralità transfrontaliera. Un TikTok provinciale, corporate, addomesticato. E, diciamocelo, molto meno sexy.

Andrew Selepak, dell’Università della Florida, lo dice chiaro: “Un TikTok americano isolato vale meno. Per gli utenti, per gli investitori. Per tutti.” E non è solo una questione di glamour digitale. È un problema di efficienza, di accesso alle innovazioni condivise, di scalabilità algoritmica. Disconnettere TikTok USA dal suo cuore tecnologico globale è come pretendere che Amazon funzioni senza AWS o che Tesla corra senza Gigafactory.

Nel frattempo, i burocrati di Washington discutono di trasparenza algoritmica, audit sui dati, e accountability. Parole che suonano bene nelle audizioni al Congresso, ma che in pratica significano che qualunque acquirente americano – e non ce ne sono molti – dovrà affrontare un doppio esame: quello della sicurezza nazionale statunitense e quello del controllo tecnologico cinese. Una procedura che, nella migliore delle ipotesi, è lenta. Nella peggiore, è un cul-de-sac geopolitico.

Bernard Meyer, consulente per l’e-commerce, l’ha riassunto in modo tagliente: “Non sarà business as usual. Dovranno aprire la scatola nera dell’algoritmo.” Ma TikTok senza quella scatola è come Ferrari senza motore. E ByteDance non ha nessuna intenzione di lasciar uscire il cuore pulsante del suo vantaggio competitivo.

E qui sta il paradosso perfetto. Gli Stati Uniti vogliono l’algoritmo, ma l’algoritmo non è in vendita. ByteDance non può venderlo. Pechino non lo autorizzerebbe. E se anche lo facesse, dovrebbe prima convincere Xi Jinping che regalare il gioiello di famiglia a Trump è una mossa geopolitica sensata. Spoiler: non lo è.

La verità che nessuno dice è che TikTok è diventato il simbolo di una nuova guerra fredda, dove i missili sono protocolli e i confini sono codici. La vendita “forzata” serve più come teatro politico interno che come reale strategia di sicurezza. Trump vuole dimostrare forza. Biden, che ha ereditato il dossier e poi lo ha lasciato fermentare, non vuole sporcarsi le mani. Vance, il mediatore, è sparito. Pechino osserva, calcola, e aspetta l’errore.

Nel frattempo, la piattaforma continua a macinare engagement, pubblicità, e potere d’influenza. Gli utenti americani scrollano ignari, i creator producono contenuti, e la realtà resta sospesa. Ma sotto la superficie si prepara un taglio netto: un TikTok per l’Occidente e uno per il resto del mondo. Due ecosistemi digitali paralleli, due visioni del controllo dati, due modelli di governance tecnologica.

E se ti sembra distopico, pensa solo a questo: anche Google è bandito in Cina. Anche Facebook. Anche X. E se la Cina ha costruito il suo giardino recintato, ora tocca all’America. Solo che invece di proteggersi, vuole appropriarsi. Ma non c’è takeover che tenga, se manca il cuore: l’algoritmo non si compra su Amazon.

“È come voler comprare un pianoforte senza le corde”, ha detto tempo fa un diplomatico cinese in forma anonima. Ironico, certo. Ma molto, molto vicino alla verità.