C’era una volta un motore di ricerca. Poi venne Google. Poi venne il SEO. Poi vennero le intelligenze artificiali, e adesso siamo tutti seduti attorno a una torta che si chiama Perplexity AI. E ognuno ha in mano un coltello diverso. Meta ha cercato di tagliarne una fetta, ha sbagliato angolazione e ha finito per investire 14,3 miliardi in Scale AI. Apple è arrivata dopo, con l’atteggiamento di chi non cucina ma pretende comunque l’ultima fetta. Sta pensando di integrare Perplexity al posto di Google nel suo Safari, mentre finge di non guardare quei 20 miliardi l’anno che Google le versa per essere il motore predefinito.

In un mondo dove anche il motore di ricerca è diventato vintage, Perplexity è l’equivalente di una Tesla nel parcheggio di una sagra paesana. Risposte in tempo reale, fonti citate, niente casino SEO, niente articoli scritti per “piacere all’algoritmo”. Solo interfaccia pulita e struttura AI-native. È la risposta alla domanda che nessuno di noi sapeva di dover fare: e se Google lo costruissimo oggi, da zero?

Il punto non è se Perplexity funzioni meglio o peggio. Il punto è che funziona in modo diverso. E in un contesto dominato da esperienze che si fingono neutre ma sono ottimizzate per l’advertising, un sistema di ricerca progettato per dare risposte, anziché generare clic, suona come una bestemmia futurista. O, per Apple, come un’opportunità per svincolarsi da un contratto miliardario che ora puzza di antitrust.

Ma il balletto si fa più interessante. Perché mentre Cupertino corteggia Perplexity in pubblico, Samsung e Motorola l’hanno già portata a casa, integrandola nei loro dispositivi. Se Apple decidesse di acquisirla, quei rapporti evaporerebbero in un lampo. La piattaforma si farebbe proprietaria, chiusa, opaca come tutte le cose in cui Apple mette il logo. Dall’essere l’alternativa pulita si trasformerebbe nella nuova versione del giardino recintato di Cupertino.

La domanda che rimbalza nei board è brutale nella sua semplicità: costruisci da zero o compri chi sta già minando il castello dei tuoi rivali? Meta ha provato ad acquisire e ha fallito, ma almeno ha preso nota. Apple, come sempre, gioca su due tavoli: o si porta a casa l’intero piatto o lo ribalta. Non esiste una via di mezzo. Intanto Perplexity galleggia in uno stato di limbo in cui è corteggiata da tutti e posseduta da nessuno, mentre i suoi fondatori si godono il fascino rarefatto del potere potenziale.

Non illudiamoci: la corsa a Perplexity non ha nulla a che vedere con l’innovazione. È un gioco di dominio, uno scambio di posizioni sul tabellone della search economy. Google è vulnerabile. Troppi interessi, troppe cause, troppe rendite di posizione. Apple lo sa. E non è un caso che stia parlando con chi, oggi, rappresenta la minaccia più elegante all’impero della ricerca. Elegante, ma anche pericolosa, perché costruita su una narrativa di purezza tecnologica che mal si concilia con i compromessi del business.

C’è un’ironia sottile in tutto questo: per anni ci siamo lamentati di Google e del suo potere. Ora che qualcuno prova a fare qualcosa di diverso, i soliti giganti cercano di inglobarlo prima che possa diventare troppo grande per essere comprato. È la legge di Silicon Valley: se non puoi costruirlo meglio, compralo prima che lo faccia qualcun altro. E se non riesci a comprarlo, finanzia il secondo classificato e spera che basti.

Nel frattempo, Perplexity diventa il nuovo ago della bilancia. Un algoritmo con ambizioni geopolitiche, una UI con più influenza di un trattato commerciale. Per Apple è un’arma di leva. Per Meta, un promemoria. Per Google, un incubo che prende forma con l’aria di chi sta solo facendo il proprio lavoro. Per noi utenti, un’altra illusione di controllo. Ma almeno stavolta, per cinque minuti, possiamo illuderci che la ricerca sia di nuovo una questione di risposte, non di click.