Un tempo si diceva “l’Europa è un gigante economico e un nano politico”. Ora rischiamo di diventare un nano digitale con ambizioni da imperatore cinese. Il Decennio Digitale Europeo, varato con squilli di tromba a Bruxelles, dovrebbe traghettare il continente nel futuro — infrastrutture intelligenti, cittadini iperconnessi, pubbliche amministrazioni che non costringono a stampare e firmare moduli in PDF nel 2025. Ma la realtà, come sempre, è una versione beta della narrazione ufficiale. E l’Italia, che sulla carta dovrebbe giocare da protagonista, si aggira ancora tra bug strutturali e arretratezze di design sistemico.
Il piano c’è. Si chiama “Digital Compass 2030” ed è l’equivalente europeo di una roadmap ambiziosa quanto generica: 100% copertura in fibra ottica, 75% di aziende che usano IA, 80% dei cittadini con competenze digitali di base, 100% dei servizi pubblici digitalizzati. Dettagli apparentemente misurabili, ma che si trasformano in miraggi quando entrano in contatto con la realtà dei nostri territori, delle nostre PMI e del nostro sistema educativo — un patchwork che pare uscito da un hackathon organizzato male.
Sulla connettività, il dato italiano fa un certo effetto: 70,7% di copertura FTTP nel 2024. Un balzo in avanti, si dirà, rispetto al 59,6% del 2023. Ma il traguardo non è il podio del DESI, è il 100% fissato dall’UE. E quella manciata di punti mancanti è fatta di montagne, borghi e periferie abbandonate, dove la fibra ottica è più un’utopia narrativa che un’infrastruttura concreta. Il 5G? Siamo al 99,5% di copertura, ma se chiedi a un cittadino medio cosa ne faccia realmente, la risposta oscilla tra “mah” e “boh”. Come sempre, la tecnologia non è solo una questione di disponibilità: è adozione, uso, valore generato. E qui cadiamo nel pozzo nero della cultura digitale.
Il Digital Economy and Society Index (DESI) è lo specchio impietoso delle nostre ambizioni frustrate. Le PMI italiane sono ferme al 70,2% di “intensità digitale base”. Parliamo di strumenti come email, social, un po’ di cloud e qualche gestionale invecchiato male. Intelligenza Artificiale? Appena l’8,2% di adozione. Big data? 26,6%. C’è più IA nei meme su TikTok che nei processi delle imprese italiane. Il problema, qui, è strategico: stiamo ancora cercando di digitalizzare un modello analogico invece di ripensare l’impresa nell’era dei dati. Incentivi fiscali? Possono servire. Ma senza un’alfabetizzazione strategica e manageriale, ogni credito d’imposta è un cerotto su una frattura scomposta.
Anche sulle competenze digitali, lo scenario è a dir poco surreale. Il 45,8% degli italiani possiede competenze digitali di base. Questo significa che più della metà della popolazione non saprebbe distinguere una mail da phishing da una vera. Lo specialista ICT è una figura mitologica: solo il 4% della forza lavoro, quando il benchmark europeo è 10%. In compenso, abbiamo una generazione di ragazzi esperti in editing video su smartphone, che però non sa usare Excel. E una scuola che parla di STEM come se fosse un optional da laboratorio pomeridiano, non il cuore pulsante della competitività futura.
Poi ci sono i servizi pubblici digitali. Qui il paradosso è tragico: l’Italia è al 83,6% nella digitalizzazione dei servizi ai cittadini. Sulla carta, quindi, siamo vicini al target. Nella pratica, però, l’esperienza utente è ancora quella del fax reimmaginato in formato XML. Troppa frammentazione tra regioni, troppa burocrazia digitale che assomiglia fin troppo alla vecchia, solo con un’interfaccia più brillante. Il fascicolo sanitario elettronico, per esempio, è accessibile all’84,1% dei cittadini. Ma quanti lo consultano davvero? E in quanti hanno avuto l’esperienza traumatica di doverlo usare in emergenza?
Gli unicorni italiani, poi, sono nove. Sì, nove. In tutta Europa se ne prevedono cinquecento entro il 2030. In pratica, siamo l’Islanda dell’innovazione: piccoli, simpatici e potenzialmente talentuosi, ma irrilevanti nel gioco globale. Mancano investimenti strutturati, un sistema di venture capital maturo, una mentalità scalabile. Le startup italiane sono spesso opere d’arte artigianali, non prodotti industriali. Ottime da mostrare a un convegno, meno da esportare in Silicon Valley.
La verità è che il Decennio Digitale Europeo è una gigantesca occasione che rischia di scivolare via sotto il peso delle inerzie nazionali. L’Italia sta facendo progressi, ma serve un’accelerazione brutale. Serve leadership. Serve una narrazione che non sia solo da comunicato stampa, ma da codice sorgente condiviso. Serve una regia che non si limiti a distribuire fondi, ma che pretenda risultati, che valuti metriche, che punisca l’inefficienza con l’esclusione. Perché il digitale non è un’estensione del passato, è una riscrittura del presente.
E mentre ci arrovelliamo tra dashboard e roadmap, altrove si corre. In Asia i nodi edge sono realtà quotidiana, in America l’IA è già embedded in ogni processo decisionale aziendale. Noi, invece, stiamo ancora cercando di capire dove scaricare lo SPID. Il tempo delle strategie è finito. Ora si implementa o si resta fuori.
Chi non riesce a fare onboarding digitale non sarà mai invitato alla prossima rivoluzione industriale. E quella, spoiler: non sarà gentile.
📌 Vuoi approfondire?
- Digital Economy and Society Index (DESI) 2024
- Piano Italia Digitale 2026
- Commissione Europea – Digital Decade:
- DESI (Digital Economy and Society Index):
- Report annuale della Commissione Europea: https://digital-strategy.ec.europa.eu/en/library/digital-economy-and-society-index-desi-2023
- Ministero dello Sviluppo Economico italiano:
- Documenti strategici sul digitale: https://www.mise.gov.it/index.php/it/industria-40/digitalizzazione
- ISTAT:
- Dati statistici sull’adozione digitale in Italia: https://www.istat.it/it/archivio/265919
- AGID (Agenzia per l’Italia Digitale):