Se c’è qualcuno che dovrebbe festeggiare il 4 luglio con le mani unte di burro d’arachidi e una bottiglia di champagne francese stappata a raffica, è Jensen Huang. L’uomo col bomber di pelle che ha trasformato Nvidia da produttore di schede grafiche per nerd a monopolista globale dell’intelligenza artificiale. Giovedì, mentre mezza America era impegnata a bruciare hot dog e a far esplodere fuochi d’artificio cinesi, le azioni Nvidia hanno chiuso a 159,34 dollari. Un balzo del 18,6% da inizio anno, spingendo la capitalizzazione a 3,88 trilioni di dollari. Manca un soffio ai 4. Già, vi ricordate quando toccare il trilione sembrava l’Everest?

Per contestualizzare: Nvidia oggi vale quasi quanto Alphabet e Meta messe insieme. Sì, Google e Facebook. Non due startup, ma due colossi che definiscono Internet. Eppure, agli occhi degli investitori, valgono meno della fabbrica di chip di Huang. È come se il Nasdaq avesse deciso che la vera infrastruttura critica non sono i motori di ricerca o i social network, ma i calcolatori neurali che li alimentano. Nvidia non è più un fornitore, è la pala nella corsa all’oro, la centrale nucleare del machine learning, il backbone fisico del futuro cognitivo.

La narrativa è semplice: nonostante un sobbalzo provocato dai dazi di Trump e dallo stop alle esportazioni di chip AI verso la Cina, Nvidia è tornata più forte di prima. Il report di Morgan Stanley, uscito lunedì, parla di “domanda molto forte per tutte le versioni del Blackwell”, la nuova architettura di GPU AI. Tradotto: ogni datacenter del pianeta, da Palo Alto a Francoforte, vuole un pezzo del cervello di Nvidia. La Cina può anche diventare off-limits, ma l’Europa — grazie a una raffica di accordi con sviluppatori locali di modelli AI — sta cercando di compensare.

Certo, la lista dei rivali è lunga come l’ansia degli analisti di Wall Street. Microsoft, Google, Amazon, Apple. Tutti i clienti di Nvidia vorrebbero diventare anche concorrenti. È la versione digitale del parricidio. Ma i fatti raccontano un’altra storia. Microsoft ha ridimensionato i suoi piani per costruire chip AI interni. Google, con le sue TPU (tensor processing unit), riesce a gestire i suoi modelli ma continua a comprare GPU Nvidia per i clienti di Google Cloud. E quando OpenAI ha osato testare le TPU di Google, il settore ha tremato. Due giorni dopo, un comunicato a Reuters ha chiarito che sì, i test ci sono stati, ma “non ci sono piani per usarle su larga scala”. Sembra quasi che qualcuno abbia fatto una telefonata… o due.

Apple? È riuscita a far girare alcune funzionalità AI sui suoi chip, ma parliamoci chiaro: è un bell’esperimento di efficienza energetica, non una minaccia reale all’egemonia di Nvidia. Anche perché costruire un chip AI competitivo non è come progettare un nuovo design di iPhone: serve un ecosistema software, un’interconnessione hardware e soprattutto anni di ottimizzazione. E tutto questo Nvidia ce l’ha, consolidato da un decennio.

La cosa più ironica? Nonostante la corsa folle del titolo, le azioni Nvidia non sono nemmeno particolarmente sopravvalutate. Guardando gli indicatori forward di vendite e utili, Nvidia è sotto Broadcom e AMD. È come se il mercato avesse accettato che sì, questa è la nuova normalità. Che un’azienda che produce chip sia l’asset più solido del capitalismo tech.

Ma attenzione: il vero paradosso non è tanto il valore, quanto la velocità. Se Nvidia supera i 164 dollari per azione, entra ufficialmente nel club dei 4 trilioni. Cosa che potrebbe accadere già la prossima settimana. Facciamo un rapido rewind: il trilione lo ha superato nel 2023, i 2 e 3 trilioni li ha sfiorati e divorati come tappe intermedie. Stiamo assistendo a una mutazione darwiniana dei mercati, dove le aziende software sono viste come obsolete e i produttori di silicio come dei faraoni del XXI secolo. La transizione dall’economia dei servizi digitali all’economia dell’infrastruttura cognitiva è già avvenuta, solo che la maggior parte delle aziende non se n’è accorta.

Nvidia oggi non vende solo chip. Vende capacità computazionale, architetture ottimizzate per il deep learning, strumenti software (vedi CUDA, TensorRT, Triton) che rappresentano lo standard de facto. In pratica, se vuoi fare intelligenza artificiale vera, non puoi farlo senza passare da Jensen. È un lock-in tecnologico e cognitivo. Chi controlla la GPU controlla il tempo di inferenza. E chi controlla l’inferenza, detta il ritmo del progresso.

Questo dominio è destinato a durare? Gli economisti amano citare la legge dei rendimenti decrescenti e parlare di “mean reversion”, il ritorno alla media. Ma la storia dell’hardware ha sempre avuto una regola diversa: chi arriva per primo, se è abbastanza bravo, crea un vantaggio cumulativo difficile da colmare. Intel, negli anni ’90, era diventata sinonimo di processore. Nvidia oggi è sinonimo di cervello artificiale. E mentre gli altri provano a rincorrere, lei innova ancora: Blackwell è solo l’ultimo passo prima di Rubin, il chip post-Blackwell previsto per il 2026, con performance previste doppiamente esponenziali.

Nel frattempo, ci si chiede quanto durerà questa fame di AI. La verità è che la domanda non riguarda tanto l’AI generativa per l’utente finale, quanto il substrato industriale. Ogni azienda media o grande, ogni ente governativo, ogni università che vuole fare ricerca avanzata oggi si sta attrezzando con GPU. È la nuova corsa al petrolio. Solo che il petrolio si estraeva, mentre qui lo si progetta. E il barile da 159 dollari oggi è una singola azione Nvidia.

Mentre Alphabet cerca di spiegare perché i suoi chatbot inventano citazioni, e Meta si inventa universi virtuali che nessuno vuole abitare, Nvidia continua a vendere i picconi. È una posizione straordinaria. E pericolosa, perché ogni impero che controlla le infrastrutture è anche soggetto a tentazioni regolatorie. Ma per ora, nessuno osa disturbare il gigante. Anche perché disturbarlo significherebbe rischiare il rallentamento della sola cosa che l’Occidente considera davvero strategica: il vantaggio computazionale sulla Cina.

Chi ha la potenza di calcolo ha il potere. Gli altri, per adesso, possono solo fare finta di giocare con le regole del libero mercato.