La democrazia algoritmica parte da roma: perché l’intelligenza artificiale può salvare il parlamento (se glielo lasciamo fare)
C’è qualcosa di irresistibilmente ironico nel vedere la Camera dei Deputati tempio della verbosità e del rinvio presentare tre prototipi di intelligenza artificiale generativa. In un Paese dove un decreto può impiegare mesi per uscire dal limbo del “visto si stampi”, si sperimenta l’automazione dei processi legislativi. Lo ha fatto, con un aplomb più da start-up che da aula parlamentare, la vicepresidente Anna Ascani. Nome noto, curriculum solido, visione chiara: “La democrazia non può restare ferma davanti alla tecnologia, altrimenti diventa ornamento, non strumento”. Che sia il Parlamento italiano a fare da apripista nell’adozione dell’AI generativa per l’attività legislativa potrebbe sembrare una barzelletta. Invece è un precedente.
Norma, Mse, Depuchat. No, non sono nomi in codice per missioni spaziali o cocktail sperimentali, ma i tre strumenti che, a detta della Vicepresidenza della Camera, dovrebbero traghettare l’istituzione nel XXI secolo. Norma analizza la produzione legislativa, Mse scrive emendamenti, Depuchat conversa con i cittadini. Tre entità digitali progettate per semplificare, accelerare, umanizzare. Perché e qui c’è la vera rivoluzione si è capito che l’intelligenza artificiale non serve solo per l’efficienza. Serve per l’inclusione.
Ora, va detto: il Parlamento italiano non è nuovo a queste operazioni di maquillage tecnologico. Dai portali opendata agli archivi digitali, qualche segnale di modernità c’è sempre stato. Ma questa volta il salto è concettuale. Si parla di intelligenza artificiale come leva democratica. Non per sostituire l’uomo, ma per rafforzare il cittadino. Non per eliminare il dibattito, ma per rendere accessibile l’arena. L’AI, in questo contesto, non è uno specchio narcisista per tecnici, ma una finestra aperta sul potere.
Il punto è che questa sperimentazione non nasce da una lobby tecnologica o da un piano industriale. Nasce dentro il Parlamento. È politica che guarda alla tecnica, e non il contrario. In questo, l’Italia anticipa una traiettoria europea che fino a ieri sembrava ancora in fase preclinica. Floridi lo ha detto con chiarezza: l’intelligenza artificiale non è una tecnologia, è una forma di organizzazione sociale. E come ogni architettura sociale, richiede regole, etica, grammatica. Serve una Costituzione dell’infosfera, non un codice sorgente con licenza GNU.
Ciò che è successo nella Sala della Regina un nome che già da solo suggerisce una monarchia travestita da repubblica è più che una presentazione di progetti. È stata la messa in scena di un cambiamento semantico. Quando un filosofo come Floridi diventa il riferimento per un’iniziativa parlamentare, qualcosa si è rotto nella cronologia degli eventi. Per una volta, non è stato il giurista a dettare l’agenda, ma il teorico dell’etica digitale. E la Camera dei Deputati ha ascoltato, anziché applaudire a comando.
Il rischio di questa svolta, però, è il solito: che venga assorbita nel vocabolario del nulla. Che diventi “innovazione” da conferenza stampa, “trasformazione digitale” da slide ministeriale. Per evitarlo, bisogna trasformare il prototipo in processo. Non basta mostrare l’AI che risponde al cittadino: bisogna renderla obbligatoria. Non è sufficiente che Norma analizzi la produzione legislativa: deve anche denunciarne l’incongruenza, l’ambiguità, la ridondanza. Altrimenti resta un esercizio di stile, non un cambio di paradigma.
Eppure, la potenza di quanto sta accadendo è evidente. L’Italia, per una volta, non arriva tardi. Ha sviluppato strumenti prima di altri. E, sebbene non lo dica abbastanza forte, ha qualcosa da insegnare anche a Bruxelles. Mentre l’Unione Europea si interroga su come limitare i danni dell’AI con l’AI Act – uno dei pochi esempi di legislazione preventiva nella storia dell’umanità – il Parlamento italiano fa una cosa rara: sperimenta. Lo fa in silenzio, con mezzi imperfetti, certo. Ma lo fa.
La chiave di lettura non sta nella tecnologia in sé, ma nella sua collocazione istituzionale. Quando uno strumento di scrittura assistita entra nei processi legislativi, cambia il modo in cui concepiamo la norma. La grammatica del potere si riscrive letteralmente. Chi definisce cosa è emendabile? Chi filtra cosa è rilevante? Chi decide l’ordine del giorno, se non anche l’ordine semantico del discorso pubblico? Ogni algoritmo è una scelta politica. E ogni scelta politica è, oggi, un algoritmo.
Floridi lo ha detto senza giri di parole: “Ogni delega all’automazione è una scelta di governance”. L’illusione dell’oggettività algoritmica è il vero pericolo. Credere che un’AI sia imparziale significa solo che non si è compreso chi l’ha allenata, con quali dati, per quali obiettivi. Trasparenza non è mettere online il codice. È mostrare l’intenzione. È rendere evidente la struttura di potere che ogni linea di codice sottende.
In questo, l’Italia potrebbe avere un vantaggio inaspettato: la sua disfunzionalità storica. La complessità della sua burocrazia, l’opacità dei suoi processi, l’inadeguatezza della sua comunicazione politica. Tutto questo, se affrontato con l’AI come leva, diventa campo di innovazione. Paradossalmente, proprio perché l’apparato statale è così difficile da navigare, ogni piccolo miglioramento algoritmico ha un impatto enorme. Depuchat, il chatbot parlamentare, potrebbe essere più rivoluzionario di mille riforme costituzionali, se davvero riesce a spiegare al cittadino cosa fa un deputato.
La posta in gioco è più alta di quanto sembri. In un mondo dove la sovranità digitale è diventata una questione di sicurezza nazionale, l’Europa ha finalmente compreso che regolamentare l’AI non significa frenarla, ma guidarla. E l’Italia, con la sua esperienza normativa e il suo caos istituzionale, è il laboratorio perfetto per testare modelli di governance algoritmica. Non per moralismo, ma per interesse strategico.
Chi ha orecchie per intendere, capisce che la vera sfida non è rendere l’AI “trasparente”, ma “democratica”. E questo significa una sola cosa: restituire al cittadino il potere di comprendere, influenzare, correggere. È la fine dell’automatismo e l’inizio della responsabilità. L’intelligenza artificiale è il nuovo forum romano. Solo che non è fatto di pietra, ma di linguaggio computazionale.
La Vicepresidente Ascani ha avuto il merito di dare una forma politica a questa intuizione. Non l’ha venduta come miracolo, non l’ha nascosta dietro tecnicismi. Ha detto una cosa semplice e radicale: “Dobbiamo favorire l’inclusione democratica attraverso le nuove tecnologie”. È un’affermazione che sembra ovvia, eppure nessuno l’ha detta con questa chiarezza prima d’ora a Montecitorio. Forse perché la paura, più dell’ignoranza, ha finora dominato il dibattito sull’AI.
Roma potrebbe diventare il cuore della geopolitica algoritmica non per caso, ma per vocazione. La città dei giuristi, dei codici, dei concili e dei compromessi, ha tutto per ospitare un nuovo Rinascimento digitale. E se oggi non lo sembra, è perché la narrazione non è ancora all’altezza della visione. Ma i prototipi ci sono. I filosofi ci sono. I politici, sorprendentemente, ci sono. Manca solo il coraggio di dire che non è una prova generale. È già lo spettacolo. E il mondo sta guardando.