C’è qualcosa di ironico nel vedere il Paese che ha trasformato l’e-commerce in un culto di massa rimanere indietro proprio nella partita degli ai agents, il nuovo totem tecnologico che promette di trasformare le aziende in organismi semi-autonomi. È come se la Cina avesse costruito l’autostrada più grande del mondo e poi si fosse dimenticata di comprare le auto. La fotografia più crudele arriva dai numeri, sempre cinici e sempre impietosi: nel 2024 gli Stati Uniti contavano 100 milioni di utenti di ai agents, pari a un tasso di penetrazione del 40 per cento, mentre la Cina, con i suoi 250 milioni di utenti, arrancava a un modesto 17,7 per cento di adozione. Un controsenso apparente che in realtà è la prova della differenza strutturale tra hype e infrastruttura.
La verità è che gli americani hanno speso di più, molto di più. Gli ordini e i ricavi dei produttori di ai agents occidentali hanno superato di un ordine di grandezza quelli cinesi nel periodo 2024-2025, secondo il rapporto della China International Capital Corporation. E no, non si tratta solo di avere qualche server in più, ma di un sistema aziendale capace di metabolizzare nuove tecnologie con la stessa naturalezza con cui un broker di Wall Street mastica acronimi. L’America ha budget IT generosi e una cultura digitale pronta ad accogliere software autonomi che promettono di pianificare e completare task complessi come se fossero stagisti ipercompetenti. La Cina invece, pur generando fiumi di brevetti e startup, paga ancora una fragilità infrastrutturale che nessuna propaganda può mascherare.
Si potrebbe obiettare che 250 milioni di utenti non siano esattamente un fallimento, ma il numero grezzo inganna. La maggioranza di questi utenti non sta usando ai agents per gestire catene logistiche o orchestrare workflow aziendali, bensì per compiti ridicoli rispetto al potenziale, dal generare post più accattivanti su WeChat all’automatizzare qualche risposta customer care. Non è questo il sogno dell’intelligenza artificiale autonoma che Sam Altman ha sbandierato come “real feel the AGI moment” quando ha presentato il nuovo ChatGPT agent, capace, a suo dire, di gestire interi flussi di lavoro dall’inizio alla fine.
Ciò che sorprende davvero è che i colossi cinesi non siano esattamente rimasti a guardare. ByteDance, Alibaba e Baidu hanno mosso le pedine, ma con la lentezza di chi ha paura di perdere faccia più che soldi. Alibaba, attraverso il Tongyi Natural Language Processing Lab, ha perfino promesso che entro cinque anni gli ai agents diventeranno “colleghi digitali” presenti nella vita quotidiana. La frase è di Huang Fei, vicepresidente di Alibaba Cloud, ma suona più come un mantra per gli investitori che una dichiarazione tecnica. Perché mentre in Occidente si integrano già gli ai agents nei processi decisionali aziendali, in Cina ci si ostina a costruire ecosistemi chiusi, con server isolati e compliance normativa asfissiante.
Eppure, paradossalmente, i casi di maggiore successo recente non sono nati dai colossi, ma da team minori e quasi clandestini. Manus, il fenomeno esploso a marzo e accostato a DeepSeek come simbolo di creatività cinese low-profile, ne è l’esempio. Ma l’effetto fuochi d’artificio è durato poco. Il licenziamento di gran parte del personale di Pechino e la cancellazione totale dei contenuti sui social cinesi parlano chiaro. Manus ha persino spostato la sede a Singapore, ufficialmente per ragioni non legate alle GPU Nvidia. La verità? Probabilmente una fuga verso un ambiente normativo e commerciale più respirabile. Non c’è futuro per chi sogna di vendere ai agents a livello globale restando confinato nella bolla cinese.
Curioso che alcune delle startup più interessanti, come GenSpark e Flowith, abbiano fondatori cinesi ma sede all’estero. Un segnale che la vera commercializzazione degli ai agents cinesi non avverrà in Cina, almeno non subito. Le ragioni? Strutturali, culturali e perfino psicologiche. Un middle manager americano vede un ai agent come un alleato che può ridurre i costi e aumentare i bonus di fine anno, mentre un manager cinese lo percepisce ancora come una minaccia potenziale da controllare. La paura di delegare a una macchina attività cruciali è radicata e viene amplificata da regole sulla gestione dei dati che rendono ogni implementazione un percorso a ostacoli.
Tutto questo non toglie che la velocità di adozione stia aumentando, anche se in modo disordinato. Chi osserva con attenzione noterà che la narrativa ufficiale parla di “catch-up”, ma i fatti indicano che si tratta di una corsa contro il tempo per non rimanere esclusi dalla terza fase dell’evoluzione AI, quella dopo i chatbots e i modelli di ragionamento. Qui si gioca il vero vantaggio competitivo, non tanto nella qualità dell’algoritmo, ma nella capacità di farlo entrare in azienda come parte della routine operativa.
Non è un caso che il report della CICC sottolinei come la debolezza infrastrutturale sia più un problema di strategia che di hardware. Gli americani non hanno semplicemente migliori data center, hanno capito che gli ai agents devono essere trattati come asset di business, non come gadget sperimentali. In Cina la visione rimane frammentata, con colossi impegnati più a mostrare demo spettacolari alle conferenze che a integrarle davvero nei processi aziendali.
Chi pensa che il divario possa chiudersi velocemente dovrebbe ricordare che la vera partita si gioca sulle abitudini delle imprese e non sui proclami dei CEO. Il mercato americano ha già una mentalità “AI first” in molte aziende, mentre in Cina la digitalizzazione spinta è concentrata in poche filiere e l’adozione resta spesso cosmetica. Certo, la storia recente insegna che la Cina è capace di recuperi impressionanti quando decide di investire massicciamente in un settore. Ma qui non si tratta solo di investimenti, si tratta di cambiare il modo in cui si pensa il rapporto tra uomo e macchina. E per ora, a quanto pare, la macchina parla inglese.