Una volta bastava il termine “ERP” per far sbadigliare un’intera stanza di CIO. Ora, però, pronunciare “Oracle” e “Agenti AI” nella stessa frase scatena reazioni più simili a quelle di una stanza piena di venture capitalist davanti a una pitch deck con la parola “autonomo”. C’è una ragione, e non è solo perché Larry Ellison ha deciso di salire a bordo del treno dell’intelligenza artificiale con la stessa delicatezza di un bulldozer in una galleria di cristalli. Oracle sta puntando dritto al cuore del futuro enterprise: una convergenza brutale tra automazione, dati strutturati, agenti intelligenti e architetture cloud distribuite, con una visione che sembra uscita da un film cyberpunk degli anni ’80, ma con margini EBITDA molto più alti.
L’intelligenza artificiale agentica, quella cosa che oggi chiamiamo “AI Agents” per sentirci più californiani, rappresenta il passaggio evolutivo dopo la semplice “AI generativa”. Dove ChatGPT si limita a sfornare testo su richiesta, gli agenti AI sono progettati per agire, prendere decisioni, orchestrare processi, risolvere ticket IT, suggerire riordini in supply chain o perché no sostituire middle manager poco performanti. Oracle, nel suo stile da impero romano tecnologico, ha deciso che non è il momento di inseguire, ma di dettare la direzione, e lo fa integrando questi agenti AI dentro il suo stack cloud e i suoi sistemi ERP/HRM/SCM con una logica che definire “predatoria” è quasi un complimento.
Il punto non è solo tecnologico. Oracle non sta semplicemente costruendo assistenti AI, sta costruendo un framework di automazione adattiva, capace di apprendere dal contesto aziendale, migliorare la qualità dei dati e interagire con sistemi legacy senza doverli smantellare. L’idea è che ogni applicazione Oracle, dal finance alla gestione del capitale umano, diventi “agent-aware”, cioè consapevole di poter delegare a entità autonome attività prima riservate a esseri umani mediamente distratti e mal pagati. Secondo Forrester Research (Q2 2025 AI Trends), il 73% delle grandi aziende sta sperimentando forme di agenti AI per processi HR e finance automation. Oracle, nel frattempo, ha già iniziato ad implementare AI Agents nel suo ecosistema Fusion, partendo da Oracle Cloud HCM e Oracle ERP Cloud.
Cosa fa un agente AI in Oracle? Non racconta barzellette, né compone poesie. Monitora le performance dei team, analizza flussi di lavoro, segnala anomalie nei costi operativi, consiglia azioni correttive e può anche agire direttamente se autorizzato. In parole povere: fa il lavoro del middle management, ma senza pause caffè. L’ironia? Questi agenti sono alimentati da OCI, la piattaforma cloud che per anni è stata snobbata da chi considerava AWS e Azure gli unici giocatori seri. Ma i numeri recenti fanno riflettere. Secondo IDC (Worldwide Enterprise AI Software Market Forecast, 2025), Oracle è ora il vendor con la crescita percentuale più alta nel settore AI agentico per l’enterprise, trainata da integrazioni native e da un focus brutale sull’automazione applicata.
Certo, la narrativa di Oracle non è sexy come quella di OpenAI o Anthropic. Non c’è un modello da 1.000 miliardi di parametri che “immagina il futuro”, ma c’è una logica chirurgica: trasformare ogni singola azione aziendale in una decisione automatizzabile. E non a caso Oracle ha recentemente annunciato un’estensione della collaborazione con Cohere, startup canadese specializzata in modelli linguistici addestrati per l’impresa. Il loro obiettivo? Lanciare agenti verticali che parlano il linguaggio del procurement, del bilancio, della compliance normativa e dell’auditing. Roba che non fa notizia su TikTok, ma che risparmia milioni.
Dietro tutto questo c’è una visione ideologica, anche se Oracle non la ammetterebbe mai pubblicamente: il futuro dell’impresa non è solo digitale, è autonomo. E questo futuro non passa da fantomatici “digital twin” o esperienze immersive nel metaverso, ma da strutture operative in grado di ottimizzare sé stesse. Qui gli agenti AI giocano un ruolo chiave. Non sono semplici bot, sono “executive assistants con accesso root”, in grado di dialogare con l’intera infrastruttura applicativa, analizzare pattern nei dati e suggerire o eseguire azioni senza intervento umano. In altre parole: non è il nuovo Oracle, è il vecchio Oracle sotto steroidi neurali.
C’è anche una questione di linguaggio. Oracle non parla di “AGI” o “superintelligenza”, ma di “intelligenza contestuale guidata da obiettivi”. La semantica è chiara: non serve coscienza artificiale, serve efficacia operativa. In questo contesto, l’adozione di agenti AI diventa un’evoluzione darwiniana del software enterprise. Un’azienda che non adotta questi sistemi è, banalmente, meno efficiente. E nel mondo Oracle questo equivale a essere irrilevanti.
Chiariamolo: tutto questo ha implicazioni devastanti sul lavoro, sulla governance aziendale e sull’etica. Ma Oracle non si nasconde. Durante l’Oracle CloudWorld 2025, Ellison ha dichiarato che “il nostro obiettivo è eliminare l’errore umano dai processi critici”. Detto da un uomo che ha costruito la sua fortuna vendendo database a governi e banche centrali, la frase ha un peso specifico non trascurabile. L’etica? Forse ci penserà un altro agente.
È qui che Oracle si differenzia da Microsoft e Google. Questi ultimi spingono assistenti generativi generalisti, con l’illusione della conversazione umana. Oracle invece spinge entità funzionali, costruite per generare ROI, non empatia. Una differenza sottile, ma sostanziale. Se Satya Nadella immagina un futuro collaborativo tra uomo e AI, Oracle immagina un futuro in cui la macchina gestisce l’uomo come un KPI da ottimizzare. Crudo? Forse. Ma brutalmente efficace.
In ultima analisi, il vero vantaggio competitivo di Oracle non è la tecnologia in sé, ma la sua integrazione verticale. Chi controlla il database, controlla il flusso decisionale. Chi integra agenti AI direttamente nel cuore delle operation aziendali, controlla il futuro. Il resto è teatro.