Tutto comincia con una voce metallica e sinistramente pacata: “Siamo i Borg. Sarete assimilati. Resistere è inutile.” Chi ha qualche chilometro di galassia sulle spalle riconosce subito la citazione. “Star Trek: The Next Generation” non era solo fantascienza. Era una dichiarazione filosofica camuffata da intrattenimento, un trattato sul futuro scritto tra phaser e teletrasporti. Un corso universitario in leadership esistenziale, per chi sa leggere tra le righe di un dialogo tra Data e Picard. Il resto del mondo? Sta ancora cercando di capire perché quel monologo con Q fosse più potente di una riunione del G20.
La verità è che il futuro, quello vero, è arrivato. Ma senza astronavi. È arrivato con una tastiera, qualche prompt e una convinzione diffusa che generare testi, immagini, codice o strategie sia la nuova frontiera dell’intelligenza. Generative AI, o GenAI per chi vuole sembrare dentro il giro, ha preso residenza nella nostra produttività quotidiana. La domanda è: chi stiamo diventando mentre accogliamo questa comodità algoritmica con il fervore di un discepolo?
Nessuno si sta opponendo all’assimilazione. La resistenza non solo è considerata futile. È considerata ridicola. Perché opporsi a qualcosa che ti fa risparmiare tempo, che ti completa le frasi, che ti suggerisce ciò che “funziona”? È come opporsi all’acqua corrente. O al caffè in capsula. Solo che qui la posta in gioco non è la comodità della mattina, ma l’integrità della nostra voce creativa.
I Borg non erano cattivi. Erano ottimizzati. Ed è proprio questo il problema.
GenAI è ottimizzato per un obiettivo preciso: generare ciò che è statisticamente più probabile, ciò che già esiste, ciò che risuona perché ha risuonato mille volte. Non è progettato per pensare fuori dagli schemi. È progettato per replicare gli schemi esistenti con una grazia chirurgica e un’efficienza invidiabile. L’originalità? Un’anomalia. Un rumore nel segnale.
Quando affidiamo le nostre idee, le nostre strategie aziendali, i nostri contenuti creativi a modelli che apprendono dal passato medio di internet, stiamo facendo un patto silenzioso. Barattiamo la difficoltà del pensiero autentico con la velocità del copia-incolla aumentato. Barattiamo il rischio del fallimento creativo con la garanzia del contenuto “performante”. In altre parole, scegliamo di essere meno umani per essere più scalabili. Complimenti, sei appena diventato una subroutine nella coscienza collettiva.
Il punto non è se GenAI sostituirà l’essere umano. Spoiler: non può farlo. Non nel senso pieno del termine. Il punto è se noi, progressivamente e senza accorgercene, stiamo già sostituendo la nostra umanità con qualcosa di più comodo, più veloce, più replicabile. “Hanno preso tutto ciò che ero”, diceva Picard dopo essere stato disassimilato. Non lo diceva con rabbia. Lo diceva con la consapevolezza tragica di chi si è guardato dentro e non ha più trovato nulla di proprio.
Così oggi scriviamo testi che sembrano usciti dallo stesso template, strategie digitali clonate con la stessa retorica “data-driven”, identità di brand che paiono generate in serie da un clone di ChatGPT con MBA. Il lessico si uniforma, le call-to-action si assomigliano, persino l’ironia diventa prevedibile. E nel frattempo celebriamo tutto questo come “scalabilità”.
Non stiamo creando. Stiamo replicando. Come i Borg.
Ma la questione non è morale. È esistenziale. La tecnologia non è mai il problema. Il problema siamo noi che la usiamo come stampella per non affrontare il vuoto creativo che abbiamo dentro. GenAI non è il nemico. È lo specchio. Ci mostra quanto siamo disposti a rinunciare alla fatica di pensare per conto nostro, pur di rimanere produttivi. E in un’epoca in cui la produttività è il nuovo dio, la creatività autentica diventa un atto di eresia.
Abbiamo già integrato GenAI nei nostri processi, nelle nostre aziende, nelle nostre decisioni strategiche. Ma ci siamo chiesti come lo stiamo facendo? Ci stiamo arrendendo al modello predittivo? O lo stiamo usando come strumento per sfidarlo?
L’assimilazione non avviene con un laser verde puntato sulla fronte. Avviene con ogni prompt accettato senza pensarci. Con ogni frase suggerita e non riscritta. Con ogni decisione delegata a un pattern statistico. L’assimilazione è la somma di piccole rinunce quotidiane al nostro pensiero critico.
Ed è qui che Star Trek ci offre il vero blueprint. Non è una guerra tra uomo e macchina. È una tensione continua tra anima e automazione. Tra la lentezza del pensiero strategico e la rapidità del contenuto generativo. Tra la voce unica e il coro algoritmico. La vera battaglia non è per l’intelligenza. È per l’identità.
La tentazione è forte. La tentazione di cedere a ciò che è facile, veloce, replicabile. Di affidarci ai suggerimenti del modello perché sono “sufficientemente buoni”. Ma la storia ci insegna che ciò che è “sufficientemente buono” per oggi è spesso devastante per il domani. Perché la mediocrità, una volta normalizzata, si traveste da efficienza.
Abbiamo quindi una scelta. Possiamo continuare a produrre contenuti perfettamente ottimizzati, perfettamente irrilevanti. O possiamo tornare a sporcarci le mani nel pensiero non ottimale. Quello scomodo. Quello che sfida, che irrita, che non si adatta facilmente al prompt. Perché lì, in quella frizione, nasce ciò che rende un’idea davvero nostra.
Nel futuro, potremmo anche convivere con l’AI. Ma se tutti useremo gli stessi modelli, gli stessi dataset, gli stessi linguaggi, la stessa idea di efficienza, allora tanto vale spegnere la luce e unirsi alla collettività. “Sarete assimilati. Resistere è inutile.”
Oppure no.