Sono vent’anni che ogni azienda che respira un bit su Internet, dal pizzicagnolo con la pagina Facebook fino al colosso che vende frigoriferi su scala globale, ha una sola ossessione: Google. Nella sua forma più innocua, voleva solo dire rendere il tuo sito leggibile da uno spider, in modo che quando qualcuno ti cerca, ti trova. Ma se eri più ambizioso, pagavi Google per farti trovare anche da chi non ti cercava affatto. Più visibilità per te, più miliardi per loro. Un patto faustiano, ma col tasto “Promuovi”.

Poi c’è stato il terzo livello, quello che ha trasformato la psicogeografia del web: il SEO. Non un trucco, ma un’ideologia. Un’industria da 75 miliardi di dollari il cui unico scopo era piacere all’algoritmo. Non bastava essere online, dovevi essere ottimizzato. Quello che è seguito è stato un genocidio stilistico: titoli riscritti per la macchina, ricette diventate romanzi, descrizioni prodotto che sembravano manifesti elettorali per tostapane. Il web è diventato un incubo semiotico: testi scritti da umani per algoritmi che imitano gli umani. Tutto suona un po’ sbagliato, un po’ artefatto, un po’… uncanny.

Perché per anni l’intero contenuto online è stato filtrato, ripassato, riplasmato attraverso l’ossessione per l’indicizzazione organica. Si sono create caste professionali, squadre interne, tecnocrati del metatag, guru con i pantaloni stretti e un’agenzia in outsourcing in Serbia. C’era chi si limitava a “ottimizzare”, e chi, più ambizioso, cercava di fregare l’algoritmo. Tra white hat e black hat, sembrava il Far West, ma con i backlink al posto delle pistole.

Poi è arrivato ChatGPT. Come un lampo di antimateria, ha aperto un buco nero al centro dell’intero sistema: gli utenti non cercano più, chattano. E quando chiedono, ricevono risposte. Non link. Non liste. Non ranking. Solo risposte. Ai margini della pagina di ricerca, Google ha iniziato a infilare le sue AI Overview, vomitando sintesi generate da LLM con la nonchalance di un barista che non chiede più “zucchero o senza?”. Per alcuni siti è stata un’apocalisse. Per il web intero, un declassamento strutturale. Non sei più la destinazione, sei una fonte tra mille. Se va bene, ti citano. Se va male, ti ignorano. Addio traffico. Addio CPM. Addio.

Chi lavorava in questo sottobosco? Decine di migliaia di SEO strategist, marketer, PR, copywriter, link builder. Un intero ecosistema professionale, fatto di “ottimizzatori” cresciuti nell’ombra dell’algoritmo. Ora costretti a reinventarsi. “Molti SEOs non vogliono accettare che le cose stiano cambiando”, ammette Aleyda Solis, CEO della spagnola Orainti. “I chatbot trattengono l’utente finché la risposta è soddisfacente. Se è informativa, non verranno mai sul tuo sito. Se è commerciale, forse verrai citato alla fine.” Non è una previsione: è un verdetto.

Tim Worstell, capo della strategia digitale di Adogy, è meno sentimentale: “Se il tuo modello di business si basa su clic e pubblicità, devi accettare che tutto sta per cambiare. È un reset. Ma ci siamo dentro tutti.” Meno poeticamente, il settore ha reagito con un classico: licenziamenti a raffica. Il resto? Appese a qualche statistica di speranza, le aziende si sono aggrappate a una nuova sigla: GEO.

Generative Engine Optimization. Oppure Answer Engine Optimization. O, se volete sembrare particolarmente “in”, LLMGEO. Un’etichetta che sa di visione futurista e disperazione allo stesso tempo. La premessa è semplice: se le AI si sono mangiate il web, si può ancora ottimizzare per farsi digerire meglio. Gli LLM, si dice, usano ancora il web. Lo leggono, lo frullano, lo remixano, lo citano. Quindi, teoricamente, si può ancora influenzarli. Come? Pubblicando contenuti pensati per essere citabili.

Solis parla di un nuovo paradigma: “I contenuti non devono essere lunghi, ma frammentabili. Le AI usano tecniche di fan-out: mille query simili, mille risposte parziali. Non cercano pagine, cercano passaggi.” Il testo, quindi, deve essere progettato per essere spolpato, non solo letto. Frasi corte, autori riconoscibili, strutture chiare. Wordiness is weakness.

Worstell ci ha provato sul campo: “Ho visto che i listicle funzionano ancora, soprattutto nei settori di nicchia. Vogliono contenuto esperto, e se lo scrivi in modo leggibile, lo usano.” Una sorta di minimalismo programmatico. Non scrivi più per Google, ma per essere snippetato da un LLM affamato e disattento.

La nuova estetica? Tabelle comparabili. Diagrammi. Raccomandazioni nette. Ricerca originale. Tutto ciò che può essere estratto, sintetizzato, integrato in una risposta. L’output GEO ideale è qualcosa che assomiglia a un incrocio tra una FAQ e un manuale tecnico in salsa Buzzfeed. Niente fronzoli, tutto struttura. Wikipedia, Reddit, YouTube: se ti citano lì, hai più probabilità di essere visto. “È tutto un gioco di visibilità secondaria”, dice Worstell. “Se sei ovunque, il modello ti nota.”

I soldi seguono i dati. Profound, una piattaforma che promette di aiutare i brand a essere “citati” da AI come ChatGPT, Gemini, Perplexity, ha raccolto milioni in VC funding. Il CEO, James Cadwallader, lo dice senza giri di parole: “La relazione col cliente è stata rubata. Le AI ti rispondono al posto tuo. Nessuno visita il sito. Nessuno legge il blog. È il chatbot che fa tutto. Ma possiamo aiutarti a farti citare.” Un po’ come pagare il ladro per farti svaligiare con classe.

Il loro approccio è da profiling neurodietetico: inviano migliaia di query agli LLM, monitorano le risposte, creano modelli comportamentali. “Stai studiando la dieta del modello”, spiega Cadwallader. Poi cerchi di inquinare quella dieta con il tuo contenuto. Non è SEO. È feeding mirato. Le AI si nutrono di te, tu cerchi di infilare il veleno nel cucchiaio.

Acme.bot, la startup indiana fondata dall’ex ingegnere di Google Abhishek Iyer, segue la stessa logica. “Google deve penalizzare lo spam scritto da AI. È l’unico modo per sopravvivere.” Ma Iyer non è moralista. “I brand usano AI ovunque, perché dovrebbero evitarla solo per i contenuti?” La sua soluzione è responsible augmentation. Usi AI per ricerca e bozza, poi un umano rifinisce. Ha anche scoperto qualcosa di potenzialmente esplosivo: ChatGPT non usa Bing per cercare. Usa Google. Ha creato delle pagine fantasma visibili solo da Google, e ha trovato prove che le AI di OpenAI ci passano sopra. Quando chiedi a ChatGPT, ti sta googlando.

OpenAI ha risposto con il classico “no comment” mascherato da PR. Google? Ha taciuto. Ma se fosse vero, cambierebbe tutto. L’LLM che doveva uccidere la search… la usa. Il serpente si mangia la coda. In modo molto SEO.

In tutto questo, i marketer non si arrendono. GEO è la nuova liturgia. I contenuti devono essere citabili. Densi. Schema-rich. Creati per rispondere, non per intrattenere. L’AI li leggerà, li taglierà, li riproporrà. Un web scritto per le AI, da AI, ottimizzato per le AI. Con umani nel loop, a fare da beta tester, da umani watermarkati.

Il risultato? Una guerra di attrito per “position zero”. Ogni brand combatte per una citazione, un excerpt, una menzione in un’AI Overview. Come cercare di essere la nota a piè di pagina più carismatica del secolo. E mentre Google, Meta, OpenAI e gli altri preparano il paywall del secolo, vendendoti l’accesso a quel micro-spazio visibile nelle risposte AI, chi produce contenuti dovrà scegliere: pagare, ottimizzare, o sparire.

Se Jeff Bezos aveva ragione quando diceva “scommetti su ciò che non cambierà mai”, allora c’è ancora speranza: i marketer continueranno a fare marketing. Anche se dovranno farsi piacere le AI. Anche se dovranno scrivere per un lettore che non legge, ma predice. Anche se la SERP è morta, lunga vita al prompt.