“Before, I Asked My Mom, Now I Ask ChatGPT”:
Visual Privacy Management with Generative AI for Blind and
Low-Vision People

L’idea che l’intelligenza artificiale generativa possa diventare un alleato insostituibile per chi vive con una disabilità visiva è una rivoluzione sottotraccia, più potente di quanto si pensi. Non si tratta semplicemente di sostituire un assistente umano con una macchina. Qui la posta in gioco è molto più alta: parliamo di autonomia, di riservatezza e di dignità, quei concetti che si sgretolano facilmente quando devi dipendere da qualcun altro anche per i dettagli più intimi. I dispositivi come ChatGPT, Be My AI e Seeing AI non solo facilitano la vita delle persone cieche o ipovedenti (BLV), ma rimodellano la relazione tra individuo e tecnologia, portandola su un piano in cui la privacy non è un lusso ma un requisito imprescindibile.

L’uso che le persone BLV fanno di queste tecnologie rivela un equilibrio quasi acrobatico tra bisogno di autonomia e protezione delle proprie informazioni personali. La lettura di un test di gravidanza o di un referto mammografico diventa un atto di intimità digitale, preferito all’interazione umana proprio per il valore della privacy. Ecco perché l’IA generativa non è un mero strumento, ma un “guardiano silenzioso” che consente di attraversare situazioni delicate senza il peso dell’imbarazzo o della vulnerabilità. In un mondo dove “privacy” è diventata una parola abusata, la sua applicazione concreta è invece spesso insufficiente o ignorata. Qui, invece, la privacy si fa carne, sangue e codice.

È interessante notare come questa esigenza si estenda a diversi scenari concreti. Dalla gestione dell’immagine personale prima di un evento sociale o professionale, dove l’IA scova con precisione chirurgica un reggiseno di troppo sullo sfondo di una foto, fino alla scansione degli ambienti, pubblici o privati, per evitare intrusioni visive indesiderate. C’è qualcosa di profondamente moderno in questa “autogestione visiva” mediata dall’IA. L’utente non si limita a “vedere” con la macchina, ma controlla e filtra quello che la macchina vede, garantendosi quella privacy spaziale spesso negata a chi non ha la vista.

La privacy si conferma poi un campo minato quando si tratta di contenuti sensibili condivisi sui social media. Prima di pubblicare un’immagine, l’IA funge da “spia invisibile” che scova documenti personali o bambini sullo sfondo, proteggendo la sfera privata con la precisione di un agente segreto digitale. Allo stesso modo, nella lettura di documenti finanziari o medici, il rapporto con l’IA si fa di volta in volta più complesso, oscillando tra fiducia e cautela. Per alcuni, l’IA è una porta chiusa sul mondo, per altri un’opportunità di autonomia che non sostituisce l’aiuto umano ma lo integra con la sicurezza della riservatezza.

Anche l’ambito professionale, spesso dimenticato nei discorsi sull’IA, assume un’importanza cruciale. I professionisti BLV, senza linee guida istituzionali chiare, si trovano a gestire in autonomia la privacy di documenti sensibili, come pratiche di disabilità o fascicoli studenteschi. Questo pone un dilemma non banale: come garantire sicurezza e conformità quando la tecnologia a disposizione non è progettata per questi contesti? È il classico problema da “wild west” digitale, dove le tecnologie nascono più velocemente delle norme che dovrebbero regolarle.

A complicare ulteriormente il quadro ci sono fattori sociopolitici spesso trascurati: l’accessibilità economica degli strumenti GenAI e le politiche di censura o filtraggio dei contenuti. Un utente teme addirittura che l’IA possa compromettere i suoi sussidi di disabilità, un timore che sfiora l’assurdo ma che indica quanto sia profonda la sfiducia verso la tecnologia quando impatta su diritti fondamentali. Non è una questione di paranoia, ma di realismo: il confine tra aiuto e controllo è sottile e va navigato con attenzione.

Da tutto questo emergono raccomandazioni che dovrebbero far riflettere non solo i tecnologi, ma soprattutto chi decide le strategie di innovazione. L’elaborazione on-device e la crittografia locale sono più di una buona pratica, sono un imperativo etico per proteggere dati che non devono lasciare il dispositivo. Non basta più una semplice promessa di sicurezza “in cloud”: la vera privacy si conquista difendendo i dati alla fonte. Per i professionisti serve un kit di strumenti sicuri, conformi alle normative più rigorose come HIPAA e FERPA, integrati con sistemi di controllo basati sui ruoli. Solo così si evita che l’IA diventi una mina vagante nella gestione di informazioni delicate.

Il feedback sull’aspetto personale, troppo spesso considerato un optional, deve essere ripensato come un servizio su misura, capace di distinguere tra imperfezioni estetiche e questioni di privacy corporea. L’idea di disambiguazione visiva negli spazi condivisi, dove l’utente può “addestrare” l’IA a riconoscere i propri oggetti, è un esempio di come la tecnologia possa diventare un’estensione dell’identità, e non solo un mero strumento. Questi suggerimenti non sono fantasie futuristiche ma indicazioni concrete per trasformare la GenAI in uno strumento di emancipazione reale.

La privacy, per chi è cieco o ipovedente, non è solo una questione di dati. È una questione di autonomia, di fiducia e di responsabilità sociale. La tecnologia che si costruisce deve tenerne conto con rigore e intelligenza, altrimenti rischia di perpetuare esclusioni e vulnerabilità. In un mondo ossessionato dalla visibilità e dall’esposizione, l’IA generativa si presenta come un paradosso: la potenza di “vedere” senza farsi vedere, di sapere senza dover spiegare, di proteggere senza esporre. Un futuro che vale la pena costruire, ma solo se si mette davvero al centro l’utente e non il profitto o la curiosità algoritmica.