McKinsey, la cassaforte intellettuale della consulenza globale, si ritrova a fare i conti con il paradosso che ha sempre predicato ai suoi clienti ma mai pensato di dover vivere sulla propria pelle: la disruption. La differenza è che questa volta il nemico non è una nuova start-up con idee fresche o un mercato emergente pronto a sgretolare margini, bensì l’intelligenza artificiale, quella stessa tecnologia che la società ha venduto come opportunità trasformativa a governi e multinazionali, e che ora le restituisce il conto con interessi da usuraio. Quando Kate Smaje, senior partner e responsabile globale delle iniziative di AI, ammette candidamente che questa è una minaccia esistenziale per la professione, non sta usando un vezzo retorico per catturare titoli: sta riconoscendo che il core business della consulenza, fatto di slide, modelli finanziari e visioni strategiche, è replicabile da algoritmi a una frazione del costo e con tempi che ridicolizzano i famosi war rooms pieni di giovani brillanti in giacca e cravatta.

L’azienda ha già dispiegato oltre 12.000 agenti di intelligenza artificiale nelle sue operazioni, e non si tratta di gadget sperimentali. Questi sistemi macinano dati, generano report, simulano sessioni di brainstorming e formulano raccomandazioni strategiche. È la caricatura perfetta del consulente di alto livello, solo che invece di dormire tre ore per notte e fatturare sei cifre al mese, l’agente AI lavora senza pause, senza voli intercontinentali e soprattutto senza bonus annuali. Lo humor amaro è che McKinsey, maestra dell’arte del downsizing, sta downsizzando se stessa. L’AI non potenzia le persone, le sostituisce. I consulenti junior, quel bacino di talenti spremuto per alimentare il modello piramidale, diventano irrilevanti in un mondo dove il lavoro sporco dei dati e delle analisi è automatizzato.

Il managing partner Bob Sternfels ha ammesso che ormai le riunioni di leadership ruotano interamente attorno alla disruption dell’AI. Una scena da manuale: i campioni della trasformazione digitale che si confrontano con la propria irrilevanza, costretti a giocare la partita che hanno sempre descritto agli altri come inevitabile. La domanda non è più se l’intelligenza artificiale rivoluzionerà il settore, ma quale frammento di valore resterà agli umani. Perché se un algoritmo può produrre in pochi secondi raccomandazioni strategiche che in passato giustificavano contratti multimilionari, allora la giustificazione stessa del pricing premium cade. Ed è in quel crollo che si gioca la sopravvivenza di McKinsey.

La società, nota per l’abilità di trasformare complessità in slide eleganti, si trova ora davanti a una semplificazione brutale: la consulenza come professione rischia di essere ridotta a commodity. In questo scenario l’intelligenza artificiale non solo minaccia i margini, ma ridisegna l’identità della professione. L’ironia più pungente è che McKinsey, paladina della trasformazione, deve finalmente applicare il proprio mantra all’interno, senza più la distanza rassicurante del cliente. Qui non si tratta di consigliare una banca su come adottare il machine learning per il risk management, ma di salvare un impero intellettuale che rischia di scivolare dalla torre d’avorio alla panchina delle professioni obsolete.

Il tema centrale, quello che gli stessi partner ammettono tra le righe, è che il capitale umano non ha più l’esclusiva sul pensiero strategico. Se la consulenza era stata l’ultima cittadella a resistere all’automazione, ora cade con fragore, mostrando che nessuna professione basata sulla conoscenza è immune. Dopo i consulenti verranno gli avvocati, i banchieri d’investimento, i think tank governativi. Il concetto di “expertise” si sta smaterializzando davanti a occhi increduli che pure hanno predicato la digitalizzazione come panacea universale.

In questo contesto, parlare di intelligenza artificiale come “bene esistenziale”, come ha fatto Smaje, è un esercizio di sopravvivenza retorica. Significa che McKinsey deve convincere se stessa, i suoi clienti e i suoi partner che l’AI non è un sostituto, ma uno strumento da cavalcare. È la narrazione classica dell’adattamento evolutivo, con un dettaglio che rende tutto più grottesco: la velocità dell’automazione non concede il lusso della gradualità. Le riunioni strategiche non hanno più un orizzonte di dieci anni, ma di sei mesi.

Ecco perché la vicenda McKinsey diventa un caso di studio globale. Se i consulenti d’élite, custodi di un sapere esclusivo e venduto a peso d’oro, possono essere replicati da modelli generativi, allora la linea che separa professioni creative e algoritmi non esiste più. L’intelligenza artificiale non sta cercando di imparare a indossare i completi su misura dei consulenti. Li sta già indossando, e a giudicare dai numeri, con più eleganza e meno costo. McKinsey non sta solo affrontando una crisi di business: sta vivendo una crisi di identità, la più temuta di tutte in un’industria che ha sempre venduto l’illusione di sapere chi guiderà il futuro.