Immagina un mondo in cui le aziende quotate presentano i conti solo due volte l’anno. Un sogno per i CEO stanchi di conference call infinite e di analisti servili che iniziano ogni domanda con un imbarazzante “good quarter, guys”. Un incubo per chi vive di trasparenza e informazioni tempestive. Donald Trump ha rilanciato questa proposta: basta report trimestrali, spazio ai bilanci semestrali. Non è la prima volta che ci prova, già nel 2018 l’amministrazione aveva spinto la Securities and Exchange Commission ad aprire una consultazione pubblica. Allora la maggioranza degli investitori istituzionali aveva bocciato l’idea, difendendo l’attuale sistema come garanzia di controllo costante. Ma Trump non molla e oggi la sua proposta riaccende lo scontro su cosa significhi davvero fare mercato pubblico.

I numeri raccontano una verità poco rassicurante. Negli anni ’90 le aziende quotate negli Stati Uniti erano oltre 6.500. Oggi sono circa 4.700, un calo di oltre il 25 per cento. Il fenomeno ha diverse cause: costi regolatori crescenti, concentrazione industriale, facilità di raccogliere capitali restando privati. Il risultato è che società come Stripe, unicorni da decine di miliardi, preferiscono rimandare l’IPO e alimentare la narrativa del privato inviolabile. Gli investitori retail restano a bocca asciutta, esclusi dalla crescita di società che plasmano interi settori. In questo contesto, Trump sostiene che il reporting semestrale renderebbe più appetibile la quotazione e abbasserebbe la soglia di ingresso al mercato. Un colpo al cuore del problema? Forse solo un palliativo.

Gli argomenti dei sostenitori sono noti. Meno report significa meno distrazioni, più concentrazione sugli investimenti di lungo termine e meno tempo perso a lucidare numeri di breve periodo. Ogni trimestre i CEO e i CFO si trasformano in prestigiatori di Excel, impegnati a spiegare variazioni marginali di cash flow come se fossero crisi esistenziali. Con metà degli adempimenti, si libererebbe capitale manageriale da dedicare a ricerca, innovazione, crescita. Non è un caso che la U.S. Chamber of Commerce abbia sostenuto questa posizione già nel 2018, argomentando che ridurre i costi regolatori è un modo per fermare l’emorragia di società dal mercato pubblico.

Il rovescio della medaglia non è meno pesante. BlackRock, CalPERS, T. Rowe Price e praticamente tutti i grandi investitori istituzionali hanno difeso il modello trimestrale come ossigeno per la trasparenza. La frequenza delle informazioni riduce l’asimmetria, limita i rischi di sorprese devastanti e permette agli investitori retail di monitorare la salute finanziaria delle aziende. Passare a un sistema semestrale significherebbe aumentare l’incertezza, ridurre la capacità di reazione e, di fatto, penalizzare i piccoli investitori a favore dei grandi che dispongono di canali informativi alternativi. È difficile non leggere in questa dinamica l’ennesima redistribuzione asimmetrica della conoscenza finanziaria.

C’è poi la questione delle sorprese. Con i report trimestrali, eventuali segnali di crisi emergono più rapidamente, dando al mercato la possibilità di correggere. Con sei mesi di silenzio, i problemi potrebbero gonfiarsi fino a esplodere in un’unica disclosure catastrofica. Non è esattamente ciò che serve a un mercato che già fatica a mantenere la fiducia. La trasparenza non è un lusso, è il motivo per cui le azioni statunitensi godono di un premio di valutazione rispetto ad altri mercati: gli investitori globali percepiscono meno rischio perché il flusso informativo è continuo. Tagliare la frequenza potrebbe intaccare quel premio.

Eppure, nonostante i rischi, l’idea resta seducente. La liturgia trimestrale è diventata un rito svuotato, una rappresentazione teatrale più che un esercizio di accountability. Tim Cook che presenta i numeri Apple con la solita enfasi, analisti che fanno domande preconfezionate, investitori che cercano più indizi linguistici che fatti concreti. Non sorprende che molte aziende più piccole abbiano invocato la fine di questa sceneggiata, denunciandone i costi sproporzionati rispetto ai benefici.

Ma il problema non è solo la frequenza. È la natura stessa del rapporto tra pubblico e privato, tra capitale retail e capitale istituzionale. Ridurre i report potrebbe incoraggiare qualche IPO, ma non cambierebbe i motivi per cui le aziende restano private: abbondanza di capitali alternativi, libertà da vincoli regolatori, possibilità di gestire la narrativa senza intrusi. Stripe non si quoterà domani solo perché i bilanci sarebbero ogni sei mesi. Per invertire il trend servirebbe ridisegnare l’intero ecosistema, non limitarsi a dimezzare gli adempimenti.

Nel frattempo, lo spettacolo va avanti. Elon Musk, il genio imprenditore con il peggior tempismo da investitore, ha appena speso un miliardo per aumentare la sua partecipazione in Tesla di uno scarno 0,08 per cento. Nel 2022 aveva venduto 90 milioni di azioni tra i 156 e i 324 dollari, salvo ora ricomprarne a oltre 374. Vendere basso e comprare alto, la strategia da manuale per impoverirsi con stile. I proventi delle vendite? Utilizzati per finanziare l’acquisto di Twitter, oggi ribattezzato X, che continua a sembrare più un sinkhole che un affare. Un promemoria utile per chi pensa che seguire le mosse dei grandi sia sempre la scelta migliore: a volte i grandi sbagliano clamorosamente.

Forse il reporting semestrale è lo stesso tipo di illusione. Sembra la scorciatoia elegante per ridurre costi e pressioni, ma potrebbe trasformarsi in un boomerang che mina la fiducia dei mercati. La domanda vera non è se ridurre la frequenza dei bilanci, ma come ridare centralità al lungo periodo senza sacrificare la trasparenza. Se si vuole davvero cambiare il paradigma, serve molto più che un colpo di spugna ogni sei mesi. Serve ripensare la relazione tra capitale, informazione e fiducia. Tutto il resto è solo rumore di breve termine travestito da riforma visionaria.