Chi si ferma al bar di Villa Borghese per il caffè del mattino trova spesso notizie che valgono più dei titoli dei giornali finanziari. È la magia del microcosmo italiano: due cornetti, un espresso al volo, Rivista.AI e all’improvviso la geopolitica digitale si intreccia con la sorte dei mercati finanziari globali.
La notizia del giorno è che ByteDance, il colosso cinese che ancora regge le sorti di TikTok, non uscirà davvero dal business americano come i titoli rassicuranti potrebbero suggerire. Bloomberg ci dice che metà dei profitti continueranno a confluire nelle casse di Pechino, camuffati da una raffinata struttura di licenze e diritti sull’algoritmo.
In altre parole, il cuore pulsante della piattaforma, quell’intelligenza artificiale che decide cosa vediamo e cosa non vediamo, resterà saldamente sotto controllo cinese. Si chiama divestimento sulla carta, ma in pratica è la globalizzazione che si prende gioco della politica industriale USA.
Chi esce da un lato entra dall’altro. Oracle, Silver Lake e il solito pool di investitori americani con forte capitalizzazione si spartiranno la governance, ma il vero asset, l’algoritmo, resta off-shore. Chiunque abbia una minima esperienza di tecnologia sa che non è la sede legale a decidere il potere, è il codice. E il codice resta in Cina. È una partita di scacchi che ricorda le vecchie guerre commerciali, solo che stavolta la posta in gioco non è l’acciaio o l’alluminio, ma la manipolazione dei flussi informativi che valgono miliardi di dollari e influenzano la psicologia collettiva delle masse.
Nel frattempo, in un’altra dimensione, Accenture ha deciso di rivedere la sua architettura del lavoro in funzione dell’intelligenza artificiale. Non basta parlare di reskilling con i toni entusiastici delle convention. Julie Sweet ha scelto di dire le cose come stanno: chi non è “skilling material”, chi non può o non vuole adattarsi, sarà lasciato indietro. Non è cinismo, è una diagnosi brutale della realtà. La trasformazione digitale non è un pranzo di gala, è una selezione darwiniana.
Il numero magico è 77.000, tanti sono oggi gli specialisti AI e data integrati nei ranghi dell’azienda, quasi il doppio rispetto al 2023. E 550.000 persone hanno ricevuto una infarinatura di base su come dialogare con la generative AI. Non è filantropia aziendale, è la constatazione che senza queste competenze un colosso del consulting rischia di diventare irrilevante.
Molti manager si riempiono la bocca con la parola “talento”, ma la verità è che il talento non basta se non si riesce a tradurlo in capacità operativa sulla frontiera tecnologica. In ogni ciclo industriale ci sono i sopravvissuti e gli esclusi, e Accenture ha appena fatto capire da che parte vuole stare.
Chi beve il caffè al bar dei Daini stamattina probabilmente non pensa a come questa mossa impatterà i mercati finanziari, ma chi ha un portafoglio azionario dovrebbe capirlo bene: il valore futuro delle big consultancy dipenderà direttamente dalla loro velocità di riconfigurare il capitale umano intorno all’intelligenza artificiale.
Sul fronte politico, la notizia più roboante arriva dall’ex presidente Trump, che ha deciso di trasformare la politica industriale USA in una guerra lampo contro Big Pharma. Dal primo ottobre 2025 scatterà un dazio del 100% su tutti i farmaci brevettati prodotti fuori dal suolo americano, a meno che le aziende non abbiano già messo la prima pietra di un impianto negli Stati Uniti. È una mossa che somiglia a un ultimatum più che a una policy. Trump scrive in maiuscolo “IS BUILDING”, come se urlasse a un board di multinazionali sorde, ma la sostanza è chiara: o costruite qui o pagate il doppio.
Chi conosce i cicli industriali della farmaceutica sa che i tempi di costruzione di un impianto non sono certo quelli di una campagna elettorale. Significa che molti colossi saranno costretti a rinegoziare strategie, supply chain, contratti di distribuzione, forse persino alleanze geopolitiche. L’effetto immediato? Volatilità sui titoli farmaceutici quotati al NYSE e al Nasdaq, con possibili spostamenti di capitalizzazione verso chi ha già investito sul territorio americano. Non si tratta solo di economia, ma di un esperimento di politica industriale che ribalta la logica globale: non più ottimizzazione dei costi tramite delocalizzazione, ma premi e punizioni in base al grado di patriottismo industriale.
È quasi comico immaginare la reazione delle aziende: dirigenti in giacca e cravatta che misurano l’umidità del terreno in Texas per capire se la prima pietra dell’impianto basterà a evitare il dazio. Ma la comicità dura poco, perché in ballo ci sono miliardi e la salute di milioni di cittadini. Le regole del gioco cambiano, e quando cambiano così bruscamente, i mercati finanziari non hanno tempo di adattarsi in modo ordinato.
Chi siede al bar dei Daini questa mattina e sfoglia distrattamente il giornale finanziario forse pensa che queste siano storie lontane. In realtà, tutto converge nello stesso nodo. La battaglia sull’algoritmo di TikTok, le decisioni di Accenture sul futuro del lavoro, e la politica industriale aggressiva di Trump descrivono un’unica traiettoria: la fine dell’illusione che i mercati finanziari vivano in una bolla autonoma.
L’algoritmo cinese, il manager che non sa dialogare con l’AI e il farmaco che non ha il bollino “Made in USA” sono elementi della stessa equazione. È un’equazione che riscrive il valore delle aziende e che, con un caffè troppo corto e un cornetto bruciato, sembra più chiara che mai.