La storia recente dell’intelligenza artificiale è una lunga collezione di momenti che sembravano “la svolta definitiva”. Ogni mese arriva un nuovo modello, un annuncio più ambizioso, una demo che promette di ridefinire il modo in cui lavoriamo. Ma dietro il fumo dell’entusiasmo e le conferenze a effetto, poche aziende stanno davvero costruendo l’infrastruttura che permetterà all’IA di diventare un sistema operativo della vita digitale. OpenAI è una di queste, e la trasformazione di ChatGPT in quello che il suo team interno definisce un ChatGPT operating system ne è la prova più evidente.
L’idea è semplice quanto radicale. Se i browser negli anni 2010 hanno preso il posto dei sistemi operativi tradizionali, diventando la piattaforma dove avviene gran parte del lavoro digitale, allora ChatGPT potrebbe rappresentare il passaggio successivo. Una piattaforma intelligente, conversazionale e modulare che diventa il punto di accesso unico al mondo del software. Non un’app tra le altre, ma il contenitore in cui le app vivono.
Quando OpenAI ha superato la soglia degli 800 milioni di utenti attivi settimanali, l’obiettivo non era più solo “mettere un assistente ovunque”, ma creare un OpenAI ecosystem dove sviluppatori, aziende e utenti coesistono dentro un ambiente in continua evoluzione. È la stessa logica che ha portato Apple a costruire l’App Store e Google a dominare con Android. Ma qui la differenza è sostanziale: il cuore dell’esperienza non è un dispositivo o un sistema operativo tradizionale, ma un’intelligenza capace di apprendere il comportamento umano, prevedere bisogni e orchestrare applicazioni.
ChatGPT non è più un chatbot, è un’interfaccia universale. Invece di aprire Excel, si chiede a ChatGPT di costruire un foglio di calcolo. Invece di andare su Expedia, si chiede un volo e il modello dialoga con l’app corrispondente. È un AI app store integrato, invisibile e fluido, dove l’interazione diventa linguaggio e non più navigazione.
Nel disegno di Nick Turley, il manager che guida ChatGPT, questa evoluzione segna la fine dell’“era del prompt”. Finora, usare l’intelligenza artificiale ha richiesto una forma di alfabetizzazione: sapere cosa chiedere, come formularlo, come correggere. L’obiettivo è cancellare tutto questo. ChatGPT deve diventare un ambiente naturale, come aprire una finestra del browser e cliccare su un’icona, ma senza icone, solo con la conversazione.
Turley parla di un futuro in cui ChatGPT sarà un sistema operativo distribuito, popolato da app di terze parti che vivranno dentro la piattaforma. L’analogia con il browser è perfetta. I browser hanno trasformato il web da un insieme di pagine in un ecosistema di applicazioni. Ora ChatGPT vuole fare lo stesso con l’intelligenza artificiale: passare dalla semplice generazione di testo alla creazione di esperienze digitali integrate.
Non è la prima volta che OpenAI tenta questa strada. I “plugin” di ChatGPT e il GPT Store avevano anticipato l’idea, ma mancava una visione unificata e un contesto esperienziale che li rendesse davvero utili. Oggi, con la nuova architettura del ChatGPT operating system, l’azienda sembra pronta a dare forma a un modello economico sostenibile. L’obiettivo non è solo offrire strumenti, ma trasformare ChatGPT in un marketplace transazionale. Prenotare un volo, ordinare del cibo o chiamare un’auto diventano operazioni dirette all’interno dell’interfaccia conversazionale, dove OpenAI può facilitare e monetizzare le transazioni.
Da un punto di vista strategico, questo è il punto in cui la piattaforma smette di essere un semplice prodotto e diventa un’infrastruttura. I partner come Expedia, DoorDash e Uber non si limitano più a integrare i propri dati, ma costruiscono esperienze personalizzate per gli utenti del modello. Per gli sviluppatori, la prospettiva è enorme: poter raggiungere centinaia di milioni di persone direttamente nel flusso delle loro conversazioni quotidiane, senza dover costruire un’interfaccia o una logica di engagement separata.
È un ribaltamento completo della logica del software. Non si tratta più di portare l’utente dentro l’app, ma di portare l’app dentro la conversazione dell’utente. Un paradosso elegante, perfettamente coerente con l’evoluzione dell’intelligenza artificiale generativa.
Ma costruire un sistema operativo non è solo una questione di visione. È un mestiere difficile, fatto di gerarchie di priorità, governance dei dati e inevitabili conflitti di interesse. Chi decide quali app vengono mostrate per prime? Chi paga per essere in evidenza? Chi controlla l’accesso ai dati? Domande vecchie quanto Internet, ma che tornano con forza in questo nuovo contesto.
OpenAI, prevedibilmente, promette equilibrio. I partner potranno forse pagare per maggiore visibilità, ma senza compromettere l’esperienza dell’utente. Gli sviluppatori dovranno raccogliere solo i dati strettamente necessari, anche se resta vago come verrà applicato il principio. Turley parla di “memorie partizionate” dentro ChatGPT, che consentiranno all’utente di decidere quali informazioni condividere e con chi. È un approccio simile a quello di Apple con i permessi granulari, ma traslato su una piattaforma linguistica che vive di contesto e personalizzazione.
In tutto questo, il paradosso etico di OpenAI rimane intatto. Come conciliare la missione dichiarata di sviluppare e distribuire un’intelligenza artificiale generale a beneficio dell’umanità con un modello commerciale che punta a monetizzare l’interazione quotidiana di milioni di utenti? Turley offre una risposta elegante, anche se non del tutto rassicurante: ChatGPT non è solo un veicolo di profitto, ma il mezzo attraverso cui la missione stessa prende forma. In altre parole, distribuire l’AGI alle masse significa commercializzarla, perché solo così può avere impatto. È una visione pragmatica, quasi inevitabile, ma che sposta l’asse della discussione dal laboratorio alla piazza.
In questo senso, ChatGPT è il manifesto di un capitalismo cognitivo dove la conoscenza diventa il prodotto e la conversazione la valuta. L’idea che l’AI diventi un sistema operativo non è solo una metafora tecnica, è la descrizione di un cambio di paradigma: la disintermediazione totale del software.
Gli sviluppatori non progettano più app da scaricare, ma esperienze da evocare. Gli utenti non navigano più, ma parlano. L’interfaccia non è più grafica, è semantica. Il valore non è nel codice, ma nel contesto. È un ribaltamento che fa tremare i giganti dell’industria. Microsoft, partner e investitore di OpenAI, osserva con attenzione perché il nuovo ecosistema di ChatGPT rischia di cannibalizzare parte della sua logica applicativa tradizionale. Apple, dal canto suo, lavora con Jony Ive e il team di design per dare forma a nuovi dispositivi integrati con l’AI di OpenAI, segno che anche Cupertino percepisce il rischio di essere tagliata fuori da un’interfaccia che vive sopra i sistemi operativi.
A livello di mercato, la creazione di un OpenAI ecosystem integrato apre scenari che ricordano i primi anni del web commerciale. L’equilibrio tra apertura e controllo, tra monetizzazione e fiducia, determinerà se ChatGPT diventerà davvero la nuova piattaforma dominante o se finirà schiacciata dalle stesse forze che oggi alimentano la sua crescita.
Dietro la retorica della democratizzazione dell’intelligenza artificiale, la realtà è che OpenAI sta costruendo il più ambizioso giardino recintato della storia digitale. Un ecosistema dove ogni applicazione, conversazione e transazione passa da un’unica interfaccia proprietaria. L’utopia dell’intelligenza aperta incontra la realtà della concentrazione economica. Forse è inevitabile. Forse è solo la legge del software che si ripete, travestita da missione etica.
Intanto, mentre gli utenti continuano a chiedere a ChatGPT di scrivere email o correggere codice, dietro le quinte si sta costruendo una nuova infrastruttura cognitiva che cambierà il modo in cui pensiamo all’informatica. L’AI app store non sarà un luogo, ma una relazione. E il sistema operativo del futuro non sarà installato sul nostro computer, ma nella nostra testa.
Come sempre, il rischio è che l’innovazione che promette libertà finisca per riscrivere le regole del controllo. Ma in fondo, ogni rivoluzione tecnologica nasce così: come un sogno di emancipazione che, a un certo punto, scopre di essere anche un business model.