Harvard scopre come l’intelligenza artificiale sta cancellando l’inizio delle carriere
Qualcuno doveva dirlo, e Harvard lo ha fatto: l’intelligenza artificiale non sta solo cambiando il lavoro, lo sta riscrivendo. Il nuovo studio di Seyed Hosseini e Guy Lichtinger, Generative AI as Seniority-Biased Technological Change, pubblicato nell’ottobre 2025, fotografa una mutazione silenziosa ma devastante. Le aziende che adottano AI generativa non assumono più giovani. Le posizioni junior si sono contratte del 7-10 % in appena sei trimestri, mentre quelle senior continuano a crescere. È la prima evidenza statistica di una tecnologia che crea un mercato del lavoro senza punto d’ingresso. Un’economia di esperti senza apprendisti.
Il dataset è titanico: sessantadue milioni di lavoratori, duecentottantacinquemila imprese statunitensi, dieci anni di curriculum e offerte di lavoro tracciate da LinkedIn e Revelio Labs. Harvard ha usato la scia digitale delle assunzioni per capire chi è stato spinto fuori dal gioco. La risposta è semplice e inquietante: i più giovani, quelli che ancora non hanno potere negoziale, quelli che imparano facendo. È un terremoto strutturale che non nasce da licenziamenti, ma da un’assenza: le aziende smettono di aprire la porta.
L’intelligenza artificiale, quella generativa che sa scrivere, programmare, sintetizzare e rispondere, ha divorato il primo gradino della scala gerarchica. I compiti ripetitivi ma cognitivamente intensi — la revisione di documenti, la scrittura di report, il debug di codice, la ricerca preliminare — erano la palestra dei giovani laureati. Oggi li fa un modello linguistico. Harvard lo definisce “seniority-biased technological change”, un cambiamento tecnologico che favorisce i livelli alti e penalizza quelli bassi. In altre parole, l’automazione ha preso una direzione verticale: non colpisce le competenze basse ma le posizioni basse.
Dal 2023, trimestre dopo trimestre, le aziende “adottanti” hanno registrato una caduta costante dei ruoli junior. La causa non è una crisi macroeconomica, né un ciclo di tassi d’interesse o un crollo post-Covid. È un effetto comportamentale. Le imprese, spiega Harvard, stanno reagendo in modo preventivo: preferiscono congelare le assunzioni giovanili piuttosto che dover licenziare quando l’AI diventerà ancora più efficiente. È una gestione del rischio in chiave algoritmica. Il risultato è una paralisi generazionale, una sorta di upgrade della disuguaglianza.
L’analisi è implacabile. Le aziende che integrano AI assumono figure specializzate chiamate “GenAI Integrator”, responsabili di incorporare i modelli nei processi aziendali. Solo il 3,7 % delle imprese nel campione ha pubblicato almeno un annuncio di questo tipo, ma rappresentano il 17 % dell’occupazione totale. Sono le aziende più grandi, più tecnologiche, più istruite. Eppure sono anche quelle che chiudono le porte ai neolaureati. Nelle imprese “AI adopter”, la quota di dipendenti junior scende al 42 % contro il 55 % delle non adottanti.
La contrazione non riguarda solo la Silicon Valley. Colpisce trasversalmente ogni settore: professionali, finanziari, retail, perfino la sanità e l’istruzione. Il blocco delle assunzioni di primo livello è generalizzato, ma si concentra soprattutto nei ruoli ad alta esposizione automatizzabile. Harvard ha incrociato i dati con le metriche O*NET di esposizione all’AI e ha scoperto che la riduzione avviene solo nei mestieri più vulnerabili all’automazione cognitiva. Chi lavora in settori a bassa esposizione non ha subito lo stesso calo.
Ciò che rende il risultato ancora più significativo è la dinamica interna: le uscite non aumentano, i licenziamenti non esplodono, e le promozioni non accelerano. Il sistema si congela. Il problema non è chi viene espulso, ma chi non entra. La pipeline di formazione aziendale — quella che trasforma uno stagista in manager in dieci anni — si sta spezzando. Se l’AI sostituisce le funzioni di base, chi imparerà a diventare senior? Chi erediterà la cultura, le competenze tacite, la capacità di decisione che non si apprende in un prompt?
Il paradosso è crudele. Harvard mostra che le aziende che usano più AI sono anche quelle con forza lavoro più istruita, proveniente da università di alto livello. Tuttavia, la riduzione di assunzioni colpisce proprio i laureati delle università intermedie: non gli Ivy League, non le scuole di basso profilo, ma la classe media accademica. È un’erosione della mobilità sociale nel cuore del capitalismo cognitivo. I migliori riescono comunque a entrare, gli outsider non ci provano nemmeno, e i solidi professionisti di fascia media si trovano schiacciati.
Le conseguenze macroeconomiche sono ancora embrionali, ma il segnale è chiaro. Stiamo creando un mercato del lavoro bifronte. Da una parte, senior esperti che usano l’AI come leva di potenza. Dall’altra, una generazione che non trova più ruoli in cui accumulare esperienza. L’AI non distrugge solo posti di lavoro: distrugge il percorso che porta a quei posti. È la differenza tra una crisi ciclica e un collasso strutturale.
Jerome Powell, presidente della Federal Reserve, lo ha detto in una conferenza stampa nel settembre 2025: “You are seeing some effects of AI on employment. A particular focus is on young people coming out of college.” Tradotto, è l’ammissione che il mercato del lavoro giovanile è diventato il laboratorio dell’automazione. Non c’è bisogno di catene di montaggio: basta un modello generativo.
Harvard conclude che l’effetto aggregato sull’economia potrebbe sembrare modesto, ma l’impatto organizzativo è enorme. L’AI sta ridisegnando la gerarchia interna delle imprese. Meno ingresso, più seniorità, meno turnover. Le aziende diventano strutture piramidali statiche, con vertici competenti ma basi sempre più sottili. È l’opposto della dinamica darwiniana che per decenni ha alimentato l’innovazione. Quando non esiste un flusso costante di giovani talenti, l’organizzazione invecchia, perde capacità adattiva, e l’AI stessa diventa un surrogato dell’esperienza invece che un moltiplicatore di apprendimento.
Sul piano strategico, questa trasformazione apre un vuoto che le aziende dovranno colmare. Se l’intelligenza artificiale sostituisce la fase di training umano, chi formerà i futuri leader? Il rischio è che l’AI diventi la nuova università aziendale, ma senza insegnare cultura, etica o capacità di giudizio. L’automazione intelligente promette efficienza, ma non educazione. E senza educazione professionale non esistono leadership sostenibili.
Il mercato sta reagendo con una combinazione di entusiasmo e cinismo. I grandi gruppi parlano di “reskilling” e “AI mentorship”, ma le statistiche mostrano il contrario. Harvard calcola che la caduta del lavoro junior coincide perfettamente con l’esplosione dei ruoli legati all’integrazione di AI, segno che la priorità è l’efficienza, non la formazione. L’ironia è che mentre l’AI democratizza la conoscenza, l’accesso alle carriere diventa aristocratico. Un aggiornamento del software che riscrive la disuguaglianza.
Per le aziende, la lezione è scomoda. Adottare AI senza ripensare i percorsi di crescita equivale a installare un ascensore in un edificio senza pianterreno. Per i giovani professionisti, significa reinventare il modo di entrare: costruire esperienze fuori dalle istituzioni, creare reputazione digitale, apprendere in rete. Per i policymaker, è il segnale che servono politiche di transizione nuove, non per chi perde il lavoro, ma per chi non riesce nemmeno a iniziarlo.
Forse Harvard non ha solo descritto un fenomeno economico, ma ha messo il dito su un paradosso culturale. L’intelligenza artificiale è diventata il nuovo capo del personale, con una logica perfettamente razionale e completamente disumana. Non valuta potenziale, ma performance immediata. Non investe sul tempo, ma sull’efficienza. E in questa logica, il talento che deve ancora maturare non ha spazio.
Se è vero che ogni rivoluzione industriale ha cancellato un tipo di lavoro per crearne altri, questa volta la cancellazione avviene all’inizio del percorso. Il lavoro non scompare in massa, ma si restringe all’ingresso. È come se il mercato del lavoro avesse installato un filtro automatico: chi non ha già esperienza, resti fuori. L’AI non è solo la nuova tecnologia produttiva, è la nuova barriera sociale.
Harvard chiude lo studio con una frase quasi diplomatica: “GenAI adoption constitutes a form of seniority-biased technological change.” Tradotto fuori dal gergo accademico: l’intelligenza artificiale ha un pregiudizio di anzianità. Una preferenza per chi è già dentro. È il più elegante eufemismo mai scritto per descrivere una realtà brutale: l’automazione intelligente ha abolito il tirocinio. E con esso, forse, la possibilità stessa di diventare esperti.
Fonte: Hosseini, S. M., & Lichtinger, G. (2025). Generative AI as Seniority-Biased Technological Change: Evidence from U.S. Résumé and Job Posting Data. Harvard University. SSRN Working Paper No. 5425555. https://papers.ssrn.com/sol3/papers.cfm?abstract_id=5425555