Il fenomeno del workslop è la più raffinata delle ironie tecnologiche. L’intelligenza artificiale, nata per liberarci dal lavoro inutile, sta creando una nuova forma di lavoro inutile. Harvard lo ha messo nero su bianco: il tempo che passiamo a correggere l’output “quasi buono” dei sistemi AI è il nuovo buco nero della produttività. È la fatica invisibile di chi deve mettere ordine nei testi levigati ma vuoti, nelle presentazioni senza anima, nei report perfetti nella forma e sbagliati nella sostanza. È la trappola dell’efficienza simulata, che scambia velocità per valore.
La ricerca di Harvard Business Review è illuminante e un po’ comica nella sua tragicità. Quattro dipendenti su dieci ammettono di ricevere workslop almeno una volta al mese. Non è colpa dei soliti stagisti o dei chatbot impazziti. Il 40% arriva dai colleghi, il 18% dai manager, il 16% persino dai dirigenti. Il lavoro inefficiente non è più un incidente: è un ecosistema, una catena di montaggio del contenuto mediamente buono che nessuno osa fermare per paura di sembrare lento.

Ognuno di questi “pezzi da rifinire” costa in media due ore di correzioni e 186 dollari al mese per dipendente. In un’azienda da 10.000 persone, significa nove milioni di dollari bruciati all’anno per riparare l’efficienza che doveva farci risparmiare tempo. È la forma moderna del paradosso di Sisifo: generiamo produttività artificiale e poi la spendiamo tutta per risistemarla, scrollando la testa mentre l’orologio digitale scorre.
Il termine workslop è geniale nella sua crudezza. Slop è ciò che resta nel secchio, un miscuglio informe di resti di mensa. Applicato al lavoro digitale, indica l’output che sembra completo ma non lo è. È la bozza che brilla a prima vista e delude alla seconda. È l’email aziendale che suona “perfettamente generata”, ma manca di autenticità, empatia e direzione. È il report che riassume tutto e non dice niente.
L’ironia è che questo tipo di inefficienza non nasce dal disinteresse, ma dall’illusione dell’automazione perfetta. L’AI generativa è entrata nelle aziende con la promessa di moltiplicare la produttività. Ma la realtà è più sfumata. Quando ogni impiegato diventa un “prompt engineer improvvisato”, il rischio è di trasformare il lavoro cognitivo in un ciclo di raffinazione infinita. L’intelligenza artificiale produce la prima bozza e l’umano la riscrive, cercando di restituire tono, contesto e senso.
A quel punto l’AI non è un copilota, ma un passeggero che parla troppo. Siamo noi a correggere la rotta, a ricalibrare il linguaggio, a decidere cosa davvero serve. L’illusione del tempo risparmiato si dissolve in minuti di editing, riletture e versioni successive che ricordano la burocrazia degli anni Novanta, solo più patinata.
Il workslop è anche un sintomo culturale. Segnala che la tecnologia non ha ancora ridefinito il concetto di qualità. Ci accontentiamo di ciò che “sembra” buono perché lo abbiamo ottenuto in pochi secondi. Ma la velocità, senza profondità, genera un’economia del superficiale. È il capitalismo dell’output istantaneo, dove l’apparenza di efficienza vale più dell’efficienza stessa.
Nel linguaggio aziendale, il workslop si traveste da progresso. È la presentazione “AI-assisted”, il memo “autogenerato”, la strategia “drafted by GPT”. Tutto suona futuristico finché qualcuno non deve ripulire il risultato. E quel qualcuno, quasi sempre, è la stessa persona che doveva essere liberata dal lavoro ripetitivo.
La verità è che la produttività non è una funzione matematica. Non basta sommare automazione e velocità per ottenere valore. Il lavoro umano eccelle nel discernimento, nel tono, nell’ambiguità interpretata. Tutte competenze che l’AI ancora imita ma non comprende. Il workslop emerge esattamente nel punto in cui questa differenza si manifesta. È la prova empirica che l’AI non sostituisce l’uomo: lo costringe a un nuovo tipo di fatica, la fatica del discernimento post-automatizzato.
C’è anche una dimensione psicologica, spesso taciuta. Ricevere workslop significa confrontarsi con un contenuto che è “quasi giusto”. Il cervello lo riconosce come vicino al risultato desiderato e quindi si sente obbligato a correggerlo. È un trigger cognitivo potente. Non possiamo ignorarlo, ma neppure usarlo così com’è. È l’esatto opposto del risparmio di tempo: è un invito implicito al perfezionismo forzato.
Forse la più grande lezione del workslop non è tecnica, ma strategica. Le aziende che credono di risparmiare adottando l’AI per tutto scopriranno presto che la vera efficienza sta nella progettazione intelligente del processo, non nello strumento. L’AI non deve sostituire, ma amplificare. Deve generare bozze che non richiedano riscritture infinite, ma stimolino idee, direzioni e confronti.
L’obiettivo non è eliminare l’intervento umano, ma renderlo più mirato. Invece di correggere il tono o sistemare la sintassi, dovremmo poter concentrare le nostre energie su decisioni strategiche. Harvard, in fondo, ci sta dicendo che la produttività non si misura in output per minuto, ma in valore per iterazione. Ogni minuto speso a correggere il nulla è un minuto sottratto alla costruzione del nuovo.
È qui che si gioca la vera rivoluzione dell’intelligenza artificiale: non nell’automatizzare la scrittura, ma nel ridefinire cosa intendiamo per lavoro intelligente. Se la tecnologia ci consegna solo versioni patinate del vuoto, allora non abbiamo bisogno di più AI, ma di più giudizio umano. Il futuro del lavoro non sarà scritto dai modelli linguistici, ma da chi saprà distinguere il contenuto vivo da quello solo ben formattato.
Il workslop è il nostro specchio digitale. Ci mostra che la velocità non è sinonimo di progresso e che la produttività può essere un’illusione ben confezionata. Ogni volta che riscriviamo un draft “AI-generated”, stiamo pagando un prezzo invisibile per la nostra fede cieca nell’automazione. L’AI non è il copilota del futuro se ci costringe a volare da soli, ripulendo il disordine che lascia dietro di sé.
POST: https://hbr.org/2025/09/ai-generated-workslop-is-destroying-productivity