on è più fantascienza, ma neppure ancora realtà. L’energia da fusione, quella promessa quasi mitologica di generare elettricità infinita e pulita a partire dall’acqua, sta uscendo dal laboratorio e cominciando a parlare il linguaggio dell’intelligenza artificiale. O, più precisamente, il linguaggio di DeepMind, la divisione di Google che negli ultimi anni sembra avere come hobby quello di risolvere problemi che il resto del pianeta definisce “impossibili”. Dopo aver battuto campioni di Go e decifrato le pieghe delle proteine, ora tenta di addomesticare il caos più estremo dell’universo: il plasma.

Il protagonista di questa nuova sfida è Commonwealth Fusion Systems (CFS), una startup nata dal MIT e oggi tra i nomi più credibili nel panorama della fusione nucleare. Il suo reattore, chiamato Sparc, è in costruzione nei dintorni di Boston e promette di essere il primo dispositivo a produrre più energia di quella che consuma. Un traguardo che, se raggiunto, cambierebbe tutto. Non solo per il settore energetico, ma per l’intera infrastruttura digitale del pianeta. Perché chi pensa che la fusione serva solo a far brillare le lampadine, non ha capito quanto fame di elettricità abbia il nuovo ecosistema dominato dall’AI.

DeepMind e CFS hanno sviluppato insieme un software chiamato Torax, una piattaforma di simulazione in grado di modellare il comportamento del plasma dentro il reattore. Una materia che sfida persino le equazioni. Il plasma è un gas così caldo da far impazzire qualunque fisico, un oceano di particelle che si muovono a velocità supersoniche, pronte a scomparire al minimo errore di controllo. Non basta tenerlo caldo, bisogna tenerlo vivo. Il problema è che nessun umano è in grado di reagire abbastanza in fretta alle sue variazioni. Lì entra in gioco l’intelligenza artificiale.

Il concetto è semplice e vertiginoso allo stesso tempo: addestrare algoritmi di reinforcement learning o di evolutionary search per scoprire autonomamente le strategie più efficienti e stabili per ottenere energia netta positiva. In altre parole, lasciare che la macchina trovi la ricetta per domare il Sole. Non serve la poesia per capire quanto questo ribalti la logica dell’ingegneria energetica. Il controllo del plasma diventa un problema di ottimizzazione dinamica, perfetto per l’AI. Ogni microsecondo, il sistema deve leggere lo stato interno del plasma e adattare i campi magnetici che lo contengono, correggendo le instabilità prima ancora che accadano.

C’è una sorta di ironia cosmica in tutto questo: per creare l’energia del futuro, stiamo usando un’intelligenza che non è umana. E per alimentare quella stessa intelligenza servirà quell’energia. Un cortocircuito concettuale che farebbe sorridere anche Asimov. Ma dietro la narrativa visionaria si nasconde un pragmatismo assoluto. I data center globali stanno divorando elettricità a ritmi insostenibili. Secondo stime recenti, l’AI consumerà entro il 2030 più energia di alcuni Paesi industrializzati. Google lo sa, e non a caso investe in tecnologie che potrebbero renderla autosufficiente dal punto di vista energetico.

Non è la prima incursione del colosso di Mountain View nel campo della fusione. Già in passato aveva collaborato con un’altra startup, TAE Technologies, per utilizzare modelli di intelligenza artificiale nello studio del comportamento del plasma nei propri esperimenti. Ma il progetto con CFS ha un sapore diverso. È un matrimonio di necessità reciproca. Da un lato DeepMind ha bisogno di casi d’uso reali che spingano la sua ricerca oltre l’ambito del software puro. Dall’altro CFS ha bisogno di una mente artificiale che riesca a governare un sistema troppo complesso persino per i supercomputer tradizionali.

La fusione è l’unica forma di energia in grado di garantire emissioni zero e una disponibilità virtualmente illimitata. A differenza della fissione, non produce scorie radioattive e non può esplodere. Ma il prezzo da pagare è la complessità. Riprodurre sulla Terra ciò che il Sole fa con naturalezza richiede temperature di oltre 100 milioni di gradi e un controllo di precisione assoluta. Il plasma deve restare confinato per diversi secondi senza toccare le pareti del reattore. Un compito che, come spiega spesso il team di CFS, “è come tenere sospesa una bolla di gelatina nel vuoto con un campo magnetico”.

Nel reattore Sparc, i magneti superconduttori di nuova generazione sostituiscono la gravità stellare. Sono loro a contenere il plasma, ma la loro efficacia dipende da algoritmi di controllo ultra-reattivi. Non si tratta più di fisica pura, ma di cybernetica applicata alla materia. Ogni decisione dell’AI diventa un micro-intervento sul campo magnetico, un impulso correttivo, un gesto invisibile che decide se la reazione continuerà o si estinguerà. L’intelligenza artificiale diventa la vera operatrice del reattore, capace di un livello di attenzione che nessun team umano potrebbe mantenere.

Il progetto Sparc è oggi completato per circa due terzi e dovrebbe entrare in funzione entro la fine del 2026. CFS sostiene che sarà il primo impianto a raggiungere l’agognato traguardo del Q>1, cioè produrre più energia di quella richiesta per avviare e mantenere la fusione. Un risultato che segnerebbe la transizione dall’era della sperimentazione a quella della produzione. E con DeepMind come co-pilota digitale, le probabilità di successo aumentano in modo esponenziale.

Ciò che colpisce è la convergenza tra due mondi che fino a poco tempo fa sembravano lontani. L’energia e l’informazione stanno fondendosi, letteralmente. La fusione nucleare diventa il banco di prova dell’intelligenza artificiale, e l’intelligenza artificiale diventa la chiave per liberare la fusione. Il simbolismo è potente: l’una rappresenta la materia, l’altra la mente. Insieme, potrebbero riscrivere la geografia del potere tecnologico globale.

È interessante osservare come questa alleanza arrivi in un momento in cui l’AI è accusata di consumare troppa energia e di essere un motore di disuguaglianze ambientali. Google, investendo nella fusione, non solo tenta di risolvere il problema energetico delle sue infrastrutture, ma si posiziona anche come salvatore della sostenibilità digitale. Una mossa di marketing o un piano industriale a lungo termine? Probabilmente entrambi. Ma funziona, perché in questa fase la percezione è quasi tutto.

C’è poi un aspetto meno visibile ma altrettanto cruciale. Gli algoritmi che DeepMind addestra per gestire un reattore a fusione sono lo stesso tipo di sistemi che potrebbero essere applicati in futuro ad altre infrastrutture complesse: reti elettriche, sistemi di raffreddamento dei data center, persino il traffico urbano. L’energia da fusione diventa così un laboratorio per la governance algoritmica del mondo fisico. Il reattore Sparc non è solo una macchina che produce energia, è un prototipo di intelligenza ambientale integrata.

La fusione nucleare, con l’aiuto dell’intelligenza artificiale, non è più solo una promessa ma un processo in corso. Un’anticipazione di un futuro dove l’energia si auto-ottimizza, dove le macchine imparano a bilanciare la complessità del mondo fisico con la logica dei dati. Forse non accenderemo ancora la lampadina con un mini-Sole domestico, ma la traiettoria è tracciata. La vera sfida non sarà più produrre energia, ma decidere chi controllerà le menti che la renderanno possibile.