Meta ha deciso che il futuro dell’intrattenimento non ha più bisogno dell’uomo. Con il lancio europeo di Vibes, il feed di video brevi completamente generati dall’intelligenza artificiale, il colosso di Menlo Park tenta l’ennesimo colpo di mano nel già sovraffollato panorama dei social media. L’app, integrata in Meta AI, promette un’esperienza “collaborativa” e “creativa” dove ogni clip è prodotta da algoritmi generativi, un TikTok in cui nessuno balla, nessuno registra, ma tutti scrollano. In apparenza è la nuova frontiera del video sociale. In sostanza è la versione sintetica della creatività umana.

L’espansione europea arriva dopo il test negli Stati Uniti, dove le reazioni sono state, per usare un eufemismo, tiepide. Sotto il post di Mark Zuckerberg che annunciava la novità, gli utenti hanno risposto con sarcasmo degno di una sitcom postmoderna. “Nessuno vuole questo”, ha scritto un utente. “Sta pubblicando fuffa AI nella sua app”, ha commentato un altro. È il termometro di una crescente disillusione nei confronti di un’industria tecnologica che sembra più interessata a produrre contenuti che emozioni.

La promessa ufficiale di Meta è allettante nella forma: creare e condividere video brevi generati dall’intelligenza artificiale, costruiti a partire da prompt testuali o remixando quelli esistenti. L’algoritmo, naturalmente, impara dai gusti dell’utente per offrire un feed “personalizzato”. La parola magica che ricorre in ogni comunicato è “co-creazione”, una visione in cui la creatività è un atto collettivo tra uomo e macchina. È la solita narrativa utopica da Silicon Valley, dove ogni novità tecnologica è presentata come rivoluzione culturale prima ancora che prodotto commerciale.

La realtà, però, ha un retrogusto più amaro. Vibes nasce nello stesso momento in cui YouTube e altre piattaforme tentano di limitare l’ondata di contenuti sintetici a bassa qualità, quella che ormai gli utenti chiamano “AI slop”. Una marea di video indistinguibili, senza significato, senza voce autentica. Meta, che pochi mesi fa dichiarava guerra ai contenuti “non originali”, sembra ora cambiare idea in nome della viralità. È un cortocircuito interessante: l’azienda che predicava autenticità ora la sostituisce con simulacri digitali.

Il tempismo non è casuale. La crescita esponenziale dei modelli generativi, da OpenAI a Runway, sta riscrivendo il modo in cui si produce e si consuma intrattenimento. Sora, la piattaforma di OpenAI per creare video con prompt testuali, è già un fenomeno. Meta non poteva restare a guardare. Ma la differenza tra generare e creare resta sostanziale. Generare è automatizzare, replicare, ottimizzare. Creare è rischiare, fallire, sorprendere. Zuckerberg, da buon ingegnere, punta sulla scalabilità. Ma l’arte non scala.

Il paradosso è che Vibes promette “personalizzazione” mentre standardizza l’esperienza visiva. Ogni feed sarà su misura, certo, ma costruito sullo stesso vocabolario di immagini sintetiche e musiche generate da reti neurali. È la personalizzazione della noia. L’illusione di un mondo cucito addosso a ciascuno, ma fatto dello stesso tessuto algoritmico per tutti. In un certo senso, è la perfetta metafora del capitalismo digitale: la diversità ridotta a variazione statistica.

C’è un’altra sfumatura che merita attenzione. Con Vibes, Meta compie un passo ulteriore verso la piena integrazione dei suoi modelli generativi nell’ecosistema Facebook e Instagram. Il feed potrà essere condiviso direttamente su Reels o nelle Stories. È la colonizzazione dell’immaginario sociale da parte della macchina. Una volta che i contenuti sintetici entreranno nei flussi tradizionali, distinguerli da quelli reali diventerà impossibile. La piattaforma non separa più la realtà dalla simulazione, ma le fonde in un’unica estetica fluida e indistinta.

Il cinismo della mossa è evidente. Mentre le autorità europee discutono di regolamentazione sull’uso dei contenuti generati da AI e sull’etichettatura della provenienza, Meta anticipa il mercato con un prodotto che cancella ogni confine. È il tipico “move fast and break things” aggiornato al 2025: spingere la tecnologia oltre il consenso pubblico, costringendo la politica a inseguire. Zuckerberg sa che l’Europa non potrà fermare Vibes senza fermare l’AI stessa. E sa anche che, nel frattempo, i dati raccolti sull’interazione con contenuti sintetici saranno oro puro per addestrare i prossimi modelli.

Curiosamente, la narrativa ufficiale parla di “democratizzazione della creatività”. Ma dietro la retorica dell’accesso libero si nasconde la solita dinamica di piattaforma: concentrare potere, attenzione e ricavi pubblicitari in un unico hub. Gli utenti diventano prompt generator, fornitori inconsapevoli di dati e di stimoli per l’algoritmo. Non creano, suggeriscono. Non pubblicano, allenano. È un modello che ridefinisce il concetto stesso di autore. In un futuro non troppo lontano, potremmo chiederci se “essere creativi” significherà ancora qualcosa.

Il successo di Vibes non dipenderà dalla sua tecnologia, ma dal suo potere di abitudine. L’algoritmo non deve convincerti che ciò che guardi è bello, deve solo farti guardare ancora. È il principio base del feed infinito, ora potenziato dall’intelligenza artificiale. Un meccanismo che non ha più bisogno di influencer, di viralità organica o di storytelling. Solo di utenti passivi e di server sempre accesi.

La domanda, in fondo, è filosofica prima che tecnologica. Cosa resta dell’identità umana in un ecosistema di contenuti generati da macchine? L’immaginazione si trasforma in consumo, l’originalità in rumore sintetico. Meta chiama tutto questo “collaborazione”. Ma sembra più una resa. Una resa lucida, calcolata e redditizia, che trasforma la creatività in algoritmo e l’intrattenimento in simulazione perpetua.

Paradossalmente, il nome “Vibes” è perfetto. Evoca emozioni, ma non le contiene. Sembra autentico, ma è vuoto. È la vibrazione residua di un mondo che ha sostituito l’esperienza con il rendering. Meta non sta costruendo una piattaforma per creare. Sta costruendo un motore per generare sensazioni sintetiche. Un’infinita playlist di nulla brillante, perfettamente ottimizzata per l’attenzione che non c’è più.