
OpenAI e la sindrome del miliardario in cerca di sussidi
Il capitalismo ha un umorismo tutto suo. OpenAI, l’azienda che predica la rivoluzione dell’intelligenza artificiale come se fosse un atto di fede privata, ha bussato alla porta della Casa Bianca chiedendo garanzie federali sui prestiti per costruire data center e infrastrutture energetiche. Poi, quando la notizia è uscita, Sam Altman ha twittato che loro, in realtà, non vogliono “né hanno mai voluto” soldi pubblici. Peccato che la lettera ufficiale all’Office of Science and Technology Policy dica esattamente il contrario.
Nell’undici pagine inviate il 27 ottobre, OpenAI suggeriva “crediti d’imposta, sovvenzioni, accordi di cost sharing, prestiti o garanzie sui prestiti” per potenziare la capacità industriale legata all’intelligenza artificiale. Persino un richiamo patriottico al Defense Production Act, come se i server NVIDIA fossero armi per la sicurezza nazionale. L’idea era chiara: ottenere fondi pubblici per accelerare la costruzione di data center e ridurre i tempi di consegna di trasformatori e cavi.
Dieci giorni dopo, Altman si è affrettato a dire su X che “i contribuenti non dovrebbero salvare aziende che fanno cattive scelte di business”. Una frase scolpita per i posteri, peccato che arrivi dopo la richiesta esplicita di un prestito garantito proprio da quei contribuenti. È la magia della comunicazione corporate: negare con eleganza ciò che si è scritto nero su bianco.
La situazione si è fatta più surreale quando la CFO Sarah Friar, sul palco del Wall Street Journal, ha parlato di un “backstop federale” utile a ridurre il costo del debito per l’infrastruttura AI. Poi, travolta dalle polemiche, ha riscritto la storia su LinkedIn: “Mi sono espressa male”. Una di quelle frasi che ormai dovrebbero comparire automaticamente in ogni contratto di un dirigente tech.
Il governo non ha perso tempo a rifiutare la richiesta. David Sacks, nominato “AI czar” per la strategia nazionale, ha ricordato che esistono almeno cinque altre aziende pronte a sostituire OpenAI. Traduzione: non siete indispensabili. Un messaggio che Silicon Valley raramente sente, ma che dovrà iniziare a digerire.
Intanto, l’episodio riapre un vecchio tema: la credibilità di Sam Altman. Nel 2023, il board di OpenAI lo aveva licenziato per “non essere sempre trasparente”, salvo poi reintegrarlo dopo una settimana di caos e lacrime digitali. Ora la storia si ripete, in una versione più istituzionale, con un documento ufficiale che smentisce le sue parole pubbliche.
Il ricercatore Gary Marcus, uno dei critici più feroci di Altman, ha pubblicato la lettera definendo la negazione “una bugia spudorata”. L’ha trovata online, sul content delivery network della stessa OpenAI. Quando la trasparenza ti tradisce dal tuo stesso server, è segno che qualcosa non funziona.
Questa faccenda non è solo gossip da tech insider. È la dimostrazione che la corsa all’intelligenza artificiale sta entrando nella sua fase industriale, dove il romanticismo dei garage californiani lascia spazio alla fame di capitale, energia e sussidi. L’AI, oggi, è un business che consuma megawatt come fossero bibite energetiche. E le grandi aziende stanno scoprendo che costruire il futuro digitale costa più di quanto i venture capitalist vogliano ammettere.
Altman vuole essere il visionario che guida l’umanità verso la superintelligenza, ma finisce per comportarsi come un costruttore di autostrade che chiede garanzie statali per il cemento. È la contraddizione perfetta del nostro tempo: l’innovazione privata che si regge sull’assicurazione pubblica.
Forse, in fondo, il sogno dell’intelligenza artificiale non è quello di superare l’uomo, ma di imparare da lui l’arte antica del chiedere soldi allo Stato fingendo indipendenza.
La lettera: