Il mercato azionario statunitense ha vissuto una settimana che i trader preferirebbero dimenticare, ma che gli analisti più attenti leggeranno come un segnale profondo: la luna di miele tra investitori e intelligenza artificiale potrebbe essere arrivata al suo primo momento di crisi. Il Nasdaq Composite è sceso del 3%, registrando la peggior performance dalla stagione dei dazi di Donald Trump nel 2018. Una coincidenza temporale che ha un sapore simbolico: allora la paura era la guerra commerciale, oggi è la disillusione tecnologica.
Titani come Palantir, Oracle e Nvidia hanno perso rispettivamente l’11%, il 9% e il 7% in pochi giorni, un colpo secco che rompe la narrativa trionfale dell’anno. Persino Meta e Microsoft, che pure hanno ribadito la loro fede quasi religiosa nell’AI annunciando nuovi investimenti miliardari, hanno visto le loro azioni scendere di circa il 4%. Un paradosso solo apparente: quando le aspettative diventano mitologia, anche i buoni risultati finiscono per sembrare tiepidi.
Jack Ablin di Cresset Capital lo ha riassunto in modo chirurgico: “Le valutazioni sono tirate. Basta un’ombra di cattiva notizia perché tutto venga amplificato, mentre le buone non bastano più a muovere il mercato.” È la psicologia del troppo successo. L’intelligenza artificiale è diventata un mantra, un’ossessione collettiva che ha gonfiato le capitalizzazioni come palloni aerostatici. Ma quando la narrativa perde slancio, l’aria esce rapidamente.
Sul piano macroeconomico, le turbolenze non aiutano. Il rischio di shutdown del governo americano, il calo della fiducia dei consumatori e i tagli occupazionali nel settore privato stanno spingendo gli investitori a ridurre l’esposizione al rischio. Eppure non è solo paura: è una presa di coscienza. La corsa cieca all’AI, che sembrava immune alle leggi della gravità economica, comincia a mostrare la sua fatica.
Il confronto con gli altri indici lo conferma: l’S&P 500 è sceso dell’1,6%, il Dow Jones dell’1,2%. Tradotto, la tecnologia sta soffrendo più del resto dell’economia. I portafogli iperconcentrati su titoli AI si stanno rivelando fragili come castelli di sabbia. Gli investitori più esperti parlano di un riequilibrio salutare, ma il tono non è sereno: è quello di chi teme che la narrativa dell’AI come “motore universale di crescita” abbia raggiunto il punto di saturazione.
Il mercato aveva bisogno di credere che l’intelligenza artificiale fosse la nuova elettricità, capace di moltiplicare i profitti in ogni settore. Ora si accorge che la transizione è più lunga, più costosa e più caotica del previsto. I margini si assottigliano, i costi di infrastruttura crescono, e il ROI dell’AI non è ancora tangibile per molte aziende. È il prezzo della realtà che bussa alla porta del sogno tecnologico.
Nel frattempo, i CEO continuano a pronunciare le parole magiche “AI-driven” in ogni call con gli investitori, ma la magia sta svanendo. L’AI resta la parola chiave più potente del decennio, ma come tutte le mode finanziarie, rischia di subire la stessa sorte del “metaverso”: troppo marketing, troppa retorica, poca sostanza nel breve termine.
Forse il mercato non sta punendo la tecnologia, ma sta semplicemente chiedendo risultati reali. Gli algoritmi non pagano dividendi, le GPU non generano margini se non vengono usate per prodotti scalabili e sostenibili. Gli investitori, dopo mesi di euforia, stanno tornando a fare i conti. E i conti, per ora, non tornano del tutto.
La settimana nera del Nasdaq potrebbe non essere l’inizio di un crollo, ma il segnale che l’intelligenza artificiale sta uscendo dalla fase adolescenziale. L’euforia lascia spazio alla selezione naturale: sopravvivranno le aziende che sapranno tradurre la potenza dei modelli generativi in profitto concreto. Le altre scopriranno che la vera intelligenza non è artificiale, ma finanziaria.