Il battito irregolare di Washington a volte anticipa tempeste che non si vedono sui radar. Mercoledì, nei corridoi dove si muovono funzionari insonni e avvocati pronti a impugnare qualsiasi comma, era comparsa una voce così ingombrante da diventare immediatamente protagonista: un presunto ordine esecutivo che avrebbe ridisegnato la mappa del potere sull’intelligenza artificiale negli Stati Uniti, sottraendo alle leggi statali ogni margine di manovra. Una mossa che avrebbe accentrato tutto a livello federale, con un tempismo che aveva il sapore di un colpo di scena in un thriller politico. La bozza trapelata era stata letta con la stessa attenzione con cui i mercati decifrano le note criptiche della Federal Reserve. Ogni riga sembrava disegnata per scatenare una guerra di competenze e di ideologie, mentre ciò che non compariva, forse, pesava ancora di più di ciò che era scritto.

Il cuore della voce riguardava un nome che, per ironia quasi letteraria, non era quello che tutti si aspettavano. Non Musk, il volto più ingombrante del tech, ma l’altro sudafricano di cui Silicon Valley si fida come di uno dei propri. David Sacks, venture capitalist, stratega, consigliere speciale per AI e crypto. Un ruolo che fino a ieri sembrava laterale e che improvvisamente diventava centrale, tanto da far storcere più di un naso nei palazzi dove nessuno si fida mai davvero di nessuno. La bozza parlava di lui in filigrana, come nota d’obbligo in ogni passaggio rilevante. Ogni agenzia citata avrebbe dovuto consultarlo, ogni misura punitiva verso gli stati passava dalla sua scrivania, ogni report sarebbe stato plasmato anche dal suo orientamento. La definizione di gatekeeper non rende giustizia a ciò che molti funzionari avevano percepito.

Molti osservatori avevano notato quanto l’intero impianto apparisse politicamente implausibile e giuridicamente fragile. Ma come accade spesso con gli ordini esecutivi durante le amministrazioni più assertive, ciò che conta non è la tenuta in tribunale. Conta l’effetto immediato, il messaggio interno, la pressione politica che deforma l’ambiente prima che un giudice possa correggere la traiettoria. Un avvocato vicino alla Casa Bianca parlava di consolidamento del potere, e lo faceva con una prudenza che non nascondeva l’allarme. Perché il disegno sembrava ispirato a un vecchio stile imperiale, quello dove si colpisce per creare panico, non per costruire consenso.

Il mondo MAGA aveva reagito con un entusiasmo apparentemente paradossale, soprattutto perché molti dei suoi membri più vocali odiano l’AI quasi quanto odiano l’idea di uno stato federale forte. Steve Bannon ne aveva parlato come di una bomba politica, e bastava ascoltarlo per capire che l’ecosistema trumpiano era già diviso. I repubblicani più legati alla base antitecnologica erano pronti a denunciare qualsiasi attacco alla sovranità degli stati, mentre i democratici vedevano nel progetto un tentativo di silenziare le loro iniziative regolatorie. La bozza, insomma, era riuscita nel capolavoro più difficile a Washington: unire gli opposti nel dissenso. Proprio quando tutti aspettavano la firma del venerdì, la firma non arrivava. Un silenzio che valeva più di qualsiasi dichiarazione.

La minaccia ai singoli stati, in ogni caso, era progettata per essere tangibile. Il Dipartimento di Giustizia avrebbe dovuto creare in trenta giorni un task force dedicato a colpire gli stati ribelli, mentre le altre agenzie avrebbero lavorato a definire quali fondi ritirare. L’idea che un governatore potesse perdere accesso a finanziamenti infrastrutturali, educativi o di telecomunicazioni solo per aver approvato una legge sull’AI aveva creato un’ansia palpabile. Un ricercatore del settore osservava che l’effetto più immediato sarebbe stato la paralisi legislativa per paura di ritorsioni, una crepa politica in cui si sarebbero potuti inserire interessi molto più grandi dell’interesse pubblico.

L’architettura del presunto ordine lasciava fuori attori considerati da anni pilastri nella governance tecnologica federale. NIST spariva senza spiegazioni, così come OSTP, CISA e CAISI. Un’assenza che gli insider avevano interpretato come una dichiarazione d’intenti. Le competenze tecniche e le procedure istituzionalizzate venivano sacrificate in favore di un approccio che ricordava più le startup aggressive che le istituzioni democratiche. Alcuni analisti suggerivano che forse Sacks avrebbe comunque dialogato con queste entità, ma il fatto che non fossero citate in un documento di tale ampiezza era un segnale che nessuno aveva ignorato.

La struttura operativa, ridotta a quattro agenzie, sembrava progettata per essere rapida e verticale. Giustizia per le cause, Commercio per i fondi, FTC per le investigazioni sulle condotte degli stati, FCC per creare un quadro federale di gestione dell’AI. Funzionava come uno schema militare, con una catena di comando chiara e un unico consigliere con un ruolo obbligatorio nelle decisioni. Sembrava un ritorno alla logica secondo cui la tecnologia deve essere governata più come un business che come un bene pubblico.

Molti nelle fila repubblicane vedevano un tradimento ideologico, un avvicinamento troppo netto ai grandi investitori della Silicon Valley. L’impressione era che il vero obiettivo non fosse la protezione dell’interesse americano, ma la salvaguardia degli imperi economici costruiti nei decenni passati. Strategi di lungo corso nel partito parlavano apertamente del fatto che la base non avrebbe mai accettato una concentrazione di potere del genere in mano a un venture capitalist, soprattutto uno che non nasconde affatto la sua agenda.

Il paradosso più gustoso, per chi osserva con un certo distacco, era il fronte informale che si era formato dietro le quinte. Progressisti anti Big Tech e falchi del MAGA si trovavano improvvisamente uniti, non per amore reciproco ma per necessità. Entrambi temevano l’ascesa incontrollata di un advisor che poteva trasformare la politica AI in un’estensione delle priorità della Silicon Valley. Un funzionario parlava di un’alleanza che nessuno avrebbe mai immaginato, un’alleanza nata più per frustrazione che per strategia.

Gli analisti notavano che l’intero episodio sembrava essere stato un test, una mossa per misurare reazioni, raccogliere pressioni e capire fino a che punto spingersi. Il risultato era stato una ritirata tattica, un ricalcolo di rotte. La settimana successiva, come in una recita già provata, arrivava un nuovo ordine, innocuo, focalizzato sui National Labs e privo di qualsiasi ambizione punitiva verso gli stati. Un segnale che magari la battaglia era rinviata, non cancellata.

Per chi osserva dall’esterno, il messaggio era fin troppo chiaro. L’ordine esecutivo sull’AI, anche se mai firmato, aveva svelato la reale tensione geopolitica interna agli Stati Uniti. La lotta per controllare la tecnologia più potente del secolo passa attraverso figure che non votano leggi ma le ispirano, non rappresentano territori ma investitori, non proteggono lo stato ma lo influenzano. Il dibattito sulla preemption, sul potere degli stati, sulle competenze federali, offriva solo la superficie visibile. Sotto, c’era la battaglia per decidere chi avrebbe scritto le regole del futuro, e chi invece le avrebbe semplicemente subite.

La vicenda mostrava quanto la politica americana sia ormai intrappolata in un ibrido inquietante. Né completamente pubblica, né completamente privata. Con figure come Sacks che oscillano tra due mondi, protette dall’ambiguità dei ruoli temporanei e dalla potenza dei network che rappresentano. La domanda non è cosa succederà al prossimo ordine esecutivo sull’intelligenza artificiale, ma quanto di tutto questo diventerà prassi. E quanto a lungo il paese potrà tollerare una governance così fluida da sembrare liquida, così decentralizzata da essere centralizzata, così competitiva da apparire instabile.