In un ecosistema digitale che celebra la velocità a ogni costo, Mariella Borghi rappresenta l’eccezione che conferma la regola: la vera innovazione richiede tempo, profondità e, soprattutto, una regia umana. L’AI non è una bacchetta magica, ma uno specchio che riflette chi siamo: governarlo richiede competenza tecnica, visione strategica e una solida
“intelligenza analogica”.
Viviamo in un tempo in cui l’intelligenza artificiale viene spesso narrata come una forza inarrestabile, un’onda di marea pronta a travolgere professioni, creatività e processi decisionali. In questo frastuono di hype tecnologico e previsioni apocalittiche, la figura di Mariella Borghi si staglia con la nitidezza di chi conosce il territorio perché lo ha mappato passo dopo passo, ben prima che diventasse una moda. Non è una tecnocrate che predica l’automazione totale, né una teorica che osserva da lontano: è una business executive e divulgatrice che lavora con l’AI dal 2011, un’era geologica fa in termini digitali, quando parlare di Natural Language Processing (NLP) significava occuparsi di una nicchia per specialisti e non dell’argomento di conversazione al bar.
La sua traiettoria professionale è la dimostrazione che la competenza non si improvvisa. Avendo attraversato le ere tecnologiche collaborando con
realtà pioniere come Celi Language Technology e interagendo con giganti come Nuance, Borghi possiede quel “radar” storico che le permette di distinguere tra rivoluzione reale e marketing. Per lei, l’AI non è mai stata una “scatola nera” magica, ma un insieme di strumenti sofisticati — dal machine learning alla computer vision — che richiedono una guida ferma. La
sua filosofia è radicata in un concetto che smonta la narrazione della sostituzione: l’intelligenza artificiale non deve rimpiazzare l’essere umano, ma potenziarlo.
È qui che nasce il concetto di NeuroFusion, sviluppato in sinergia con Elisabetta Alicino: un nuovo paradigma che vede nella simbiosi tra
creatività umana e potenza di calcolo la vera frontiera dell’innovazione. Mentre il mercato si affanna a cercare il prompt perfetto per ottenere
risultati mediocri in pochi secondi, Borghi sposta l’attenzione a monte: sulla qualità della domanda, sulla strategia che precede l’esecuzione e sulla
capacità critica di valutare l’output. “Se non puoi imparare, non puoi prosperare” diventa il mantra di una visione in cui la tecnologia è inutile se non è accompagnata da un costante reskilling cognitivo delle persone.
Attraverso Aidea, la società di consulenza co-fondata con Annamaria Anelli ed Elisabetta Alicino per portare l’AI nelle aziende in modo strategico, Mariella Borghi applica un metodo che potremmo definire “maieutico”. Non vende soluzioni preconfezionate, ma percorsi di consapevolezza. Il suo approccio parte dallo smantellamento delle illusioni: l’AI non risolverà i problemi di un’azienda che ha processi disordinati o dati frammentati. Al contrario, amplificherà il caos. La sua metodologia costringe imprenditori, imprenditrici e manager a farsi le domande scomode prima di investire in tecnologia. Perché innovare questo processo? Qual è il valore reale generato? È un richiamo all’ordine che trasforma l’adozione dell’AI da un atto di fede a un piano chiaro.
Ma c’è un livello ulteriore nel lavoro di Mariella Borghi, che trascende l’efficienza operativa per toccare la sfera sociale ed etica. In un mondo in cui
gli algoritmi sono addestrati su dataset che riflettono i pregiudizi storici della nostra società — spesso occidentali, bianchi e maschili — lei alza
la voce per reclamare un’AI più inclusiva ed equa. Il suo impegno con Ripples Talent Agency e attraverso l’hashtag #liberədiessere non è un’attività
collaterale, ma il cuore pulsante di una visione politica della tecnologia. Se l’AI è uno specchio, dobbiamo assicurarci che rifletta la pluralità del mondo e non solo una sua frazione dominante. Dare voce alle donne, supportare la leadership femminile e combattere il gender gap nei dati sono per lei atti
di resistenza necessaria per evitare che il futuro digitale sia solo una replica automatizzata delle ingiustizie del passato.
C’è poi un aspetto affascinante, quasi sovversivo, nella sua routine: la rivendicazione dell’Intelligenza Analogica. In un’epoca di connessione perenne, Mariella Borghi trova il suo centro di gravità lontano dagli schermi, cucendo i propri vestiti e lavorando a maglia. Non è un vezzo nostalgico, ma una disciplina mentale. Il contatto con la materia, la lentezza del processo artigianale e la tangibilità del risultato sono l’antidoto alla smaterializzazione e alla frenesia del digitale. È in questo spazio di “tempo vuoto”, di disconnessione volontaria, che si coltiva quella profondità di pensiero che nessuna macchina può replicare. È la dimostrazione vivente che per governare l’accelerazione bisogna saper rallentare, o come ama dire citando la slow productivity: “fare meno cose, lavorare a un ritmo naturale, essere ossessionati dalla qualità”.
La sua critica al “workslop” — quel lavoro generato dall’AI che appare ben fatto ma è privo di sostanza e utilità reale — è tagliente . Borghi ci mette in
guardia dal rischio di inondare il mondo di mediocrità sintetica, creando un debito cognitivo che qualcun altro dovrà pagare. La sua risposta è la
competenza: imparare a scrivere con l’AI, non tramite l’AI, mantenendo la regia creativa e la responsabilità del contenuto. Nel suo lavoro di formazione, insiste sul fatto che un prompt non è una formula magica, ma un atto di comunicazione e di design del pensiero. Se non sai cosa vuoi dire, l’AI non lo dirà per te; si limiterà a riempire il vuoto con parole statisticamente probabili. Guardando al futuro, la visione di Mariella Borghi è lucida e priva di trionfalismi. Riconosce che siamo di fronte a un cambiamento di paradigma paragonabile all’avvento di Internet o dell’elettricità, ma rifiuta il determinismo tecnologico. L’evoluzione verso agenti AI autonomi e modelli sempre più potenti non deve tradursi in una abdicazione al giudizio umano. Al contrario, richiede una supervisione ancora più attenta e una governance etica rigorosa.
In definitiva, Mariella Borghi incarna la figura della “traduttrice culturale” di cui la nostra epoca ha disperatamente bisogno. Qualcuno capace di decodificare la complessità tecnica trasformandola in valore reale, senza mai perdere di vista l’impatto sulle persone. La sua lezione è chiara:
l’intelligenza artificiale è una risorsa straordinaria, ma resta uno strumento. Il vero vantaggio competitivo, oggi e domani, risiederà sempre nella capacità umana di porre le domande giuste, di curare le relazioni e di immaginare futuri che l’algoritmo, da solo, non saprebbe mai calcolare.