L’intelligenza artificiale cinese è tornata al centro del dibattito globale, non tanto per il clamore mediatico che circonda ogni nuova release di modelli fondativi, quanto per un dettaglio più prosaico e molto più determinante del solito racconto epico su chip e superpotenze. Il capitale, quel carburante silenzioso che decide chi corre, chi arranca e chi resta a bordo pista. Il commento tagliente dell’ex CEO di Google Eric Schmidt sulla presunta incapacità delle start up cinesi di raccogliere fondi ha riacceso la discussione, come se qualcuno avesse ricordato al pubblico che la supremazia tecnologica non si costruisce solo con i brevetti, ma soprattutto con i portafogli. La narrativa è seducente: America con il suo mercato dei capitali ipervitaminizzato a sostenere una corsa continua, Cina che tenta di tenere il passo ma inciampa in un sistema finanziario meno trasparente e meno profondo. Tuttavia, quella che a prima vista sembra una diagnosi impeccabile rivela invece un retroscena molto più complesso, dove politica industriale, investimenti statali, venture capital selettivi e Big Tech locali giocano una partita a multipli livelli.

Schmidt ha parlato chiaro, sostenendo che le start up cinesi letteralmente non riescono a raccogliere fondi a sufficienza per sostenere la guerra dei modelli di grande scala. Ha evocato un mercato dei capitali statunitense come “il più straordinario del mondo”, un commento che suona come un mix di patriottismo economico e constatazione di fatto. Chiunque abbia osservato anche da lontano il mondo dei venture capital americani sa quanto siano disposti a versare milioni per idee ancora in fase embrionale, purché lo storytelling sia irresistibile. In Cina il copione è diverso. L’appetito del venture capital si è affievolito, complice una congiuntura economica più opaca e un ecosistema regolatorio che scoraggia la presa di rischio. Il risultato è un mercato più diffidente e un flusso di capitale privato che si è assottigliato nella parte più pura del gioco dell’innovazione.

Tuttavia, chi conclude che ciò equivalga a una paralisi dell’intelligenza artificiale cinese pecca di ingenuità. Gli analisti più attenti notano che dove il capitale privato arretra, quello statale avanza con un tono quasi inevitabile. Questo vale ancora di più in settori strategici come i semiconduttori, i modelli linguistici e le piattaforme dati, dove Pechino vede l’innovazione non come un’opportunità di mercato, ma come un asset politico ed economico da proteggere. PitchBook ha osservato che la formazione del capitale in Cina è ormai guidata in modo dominante da programmi sostenuti dallo Stato e dagli ecosistemi corporate. È un modello che ricorda un’economia di comando modernizzata, dove le priorità industriali si fondono con le strategie tecnologiche.

Alibaba e Tencent, dopotutto, non sono semplici aziende. Sono nodi di un sistema che unisce mercato e pianificazione, investitori e governi locali, piattaforme digitali e politica industriale. La loro capacità di immettere capitali nelle start up AI compensa ampiamente la ritrosia dei fondi tradizionali. Moonshot AI, MiniMax e Zhipu non sono comparse di un film di propaganda tecnologica, ma casi studio di come un ecosistema ibrido possa sostenere modelli avanzati senza dipendere dalla volatilità del venture capital occidentale. È un paradosso curioso: mentre in Occidente si celebra la superiorità del mercato aperto, la Cina mette in campo un modello di finanziamento che distribuisce il rischio tra pubblico e privato, mantenendo viva la pressione competitiva interna.

Chi guarda solo ai numeri degli investimenti potrebbe comunque notare un punto apparentemente debole. Le start up finanziate nel campo dell’intelligenza artificiale cinese sono aumentate da 521 a 741 in un solo anno, un’impennata che suggerisce vitalità. Il valore complessivo degli investimenti però è rimasto attorno ai 62 miliardi di yuan. Gli investitori hanno preferito distribuire capitali su un ventaglio più ampio di imprese, adottando una strategia più prudente. Questo comportamento racconta una transizione: meno scommesse gigantesche su unicorni futuristici, più puntate misurate su applicazioni reali nei settori tradizionali. Non è necessariamente un segno di debolezza. Può essere visto come un riallineamento verso una fase in cui l’AI non vive più solo nell’hype dei laboratori, ma scende a terra nelle filiere produttive, nei servizi pubblici, nell’automotive, nella logistica.

Schmidt ha però inserito un elemento interessante nella discussione, notando che la Cina eccelle nell’open source e che questo vantaggio appare evidente persino agli occhi degli innovatori americani. Una frase del genere pesa, soprattutto considerando che per anni l’Occidente ha guardato all’open source come a una bandiera della trasparenza e della collaborazione internazionale. La Cina oggi guida la produzione di modelli open source, spesso sviluppati con una velocità e un pragmatismo che sorprendono. Secondo Schmidt gli Stati Uniti non mostrano una leadership equivalente. Questa asimmetria si riflette in un ecosistema dove la condivisione del codice non è solo una strategia tecnica, ma un modo per accelerare l’adozione di massa e creare standard de facto che gli altri dovranno inseguire.

Chi osserva il quadro con attenzione però vede un’ombra significativa: la mancanza di meritocrazia finanziaria nel sistema cinese. Alcuni analisti sostengono che l’assenza di un mercato dei capitali trasparente e meritocratico possa generare distorsioni nel lungo periodo. Quando i finanziamenti vengono assegnati da organismi statali, governi provinciali o conglomerati tech semi pubblici, il livello di scrutinio competitivo può ridursi. Le decisioni rischiano di rispondere più alle priorità politiche che alla valutazione del rischio. Questo potrebbe rallentare l’emergere di innovatori controcorrente, i classici outsider che spesso rivoluzionano un settore perché non hanno nulla da perdere. È un punto critico che merita attenzione, perché l’intelligenza artificiale non vive solo di potenza di calcolo ma di idee radicali, e le idee radicali spesso germogliano nei luoghi meno regolati.

Schmidt ha poi osservato che la Cina sta incorporando l’AI ovunque, dai tostapane intelligenti ai robot industriali, dimostrando una capacità impressionante di sperimentazione e una visione sistemica che solo un paese con un potere manifatturiero così vasto può mantenere. È un vantaggio strutturale che l’America non può replicare facilmente. La capacità di iterare hardware e software con tempi di produzione brevissimi consente alla Cina di trasformare il proprio ecosistema in un laboratorio diffuso di applicazioni AI. Non è un caso che le aziende automobilistiche cinesi siano oggi tra le più aggressive nell’integrare sistemi di guida avanzata, mentre le fabbriche integrano algoritmi per ridurre costi e aumentare la flessibilità.

La domanda è dunque se il presunto gap di finanziamento segnalato da Schmidt sia davvero in grado di frenare l’intelligenza artificiale cinese. Chi guarda solo all’architettura finanziaria rischia di sopravvalutare il ruolo del mercato privato e sottovalutare un modello industriale che ha dimostrato più volte la propria resilienza. Il confronto USA Cina nell’AI non è una gara lineare tra capitale e talento, ma uno scontro tra due logiche opposte di sviluppo tecnologico. Una si affida alla concorrenza selvaggia dei mercati finanziari, l’altra alla pianificazione strategica e agli ecosistemi ibridi che mescolano Big Tech, potere pubblico e capacità industriale.

La verità è che la sfida resta aperta e che nessuno dei due modelli ha già vinto. Chi pensa che la Cina possa rallentare solo per un temporaneo restringimento del capitale privato ignora la natura strutturale del suo impegno nell’intelligenza artificiale. Chi crede che gli Stati Uniti possano mantenere il vantaggio grazie alla profondità del loro mercato finanziario sottovaluta la forza di un sistema che integra politica industriale, infrastrutture e sperimentazione continua. Nessuno dei due farà passi indietro. Chi vince non sarà chi ha più denaro, ma chi saprà trasformarlo più rapidamente in capacità diffusa. In questo, la partita è ancora tutta da giocare.