La prima immagine che arriva alla mente, ascoltando l’ultimo intervento mediatico di Elon Musk, è quella di un ingegnere visionario che apre la porta di un garage, trova un Leviatano addormentato e decide che è il momento di svegliarlo a colpi di statistiche, provocazioni e ipotesi cosmiche. La keyword che attraversa ogni suo ragionamento sembra sempre la stessa: efficienza governativa. Le altre che orbitano intorno, come satelliti programmati, riguardano intelligenza artificiale e colonizzazione di Marte. Forse è questa la triade che sintetizza la postura del personaggio in questa fase storica. Un mix di pragmatismo spietato e mitologia tecnologica, con punte di ironia involontaria che solo un imprenditore da centinaia di miliardi riesce a produrre senza sforzo apparente.
La storia dei cosiddetti zombie payments, a sentir lui, potrebbe sembrare un episodio scartato da una serie di satire politiche ambientate in una Washington piena di dipartimenti inventati. La cifra che cita nel podcast, tra i cento e i duecento miliardi l’anno, è così vertiginosa da generare lo stesso effetto dei numeri usati dagli astronomi quando valutano la distanza tra le stelle. Un pubblico distratto alza le sopracciglia, i tecnocrati prendono appunti, gli economisti si domandano quanto del tutto abbia basi tecniche verificabili. Musk sa benissimo che il grande pubblico non verificherà i dettagli, perciò sceglie la grandezza come arma retorica. Il fatto che la struttura chiamata Department of Government Efficiency fosse nata da discussioni informali e suggerimenti anonimi online non lo imbarazza neppure per un secondo. Anzi, quasi se ne compiace. Sottolinea che qualcuno propose l’acronimo DOGE, lui lo trovò divertente, e così venne creato un dipartimento che sarebbe durato quanto una fiammata di plasma sulla superficie solare.
La narrazione continua e diventa un piccolo manifesto politico mascherato da confessione tecnica. Dice che il team fermò finanziamenti insensati, tagliò sprechi, incontrò resistenze. Aggiunge che non lo rifarebbe. La parte divertente è che la resa dei conti arriva con una naturalezza glaciale: meglio tornare alle aziende che smontare i programmi preferiti da gruppi di potere che non gradiscono vedere i rubinetti chiusi. È un passaggio che rivela molto più del tono neutrale che usa per raccontarlo. L’uomo che lancia razzi ed elimina colli di bottiglia produttivi non ha voglia di misurarsi con la politica tradizionale. Perché nel privato, dice lui, puoi spegnere gli sprechi senza dover chiedere permesso. Nel pubblico devi ballare con gli elefanti.
Il dialogo vira poi su immigrazione e tecnologia, un binomio che negli Stati Uniti genera sempre reazioni incandescenti. Descrive i flussi migratori come un problema mal gestito, un fattore che grava su risorse pubbliche già sotto pressione e un ingrediente che complica la transizione verso un’economia dominata dall’automazione. Il ragionamento è semplice e insieme spinoso. Se i robot e l’intelligenza artificiale elimineranno molti lavori, sostiene, occorre ripensare tutto ciò che riguarda formazione, welfare, redistribuzione. Sorprende che chi guida aziende basate sull’automazione più aggressiva del pianeta si mostri preoccupato della stessa automazione. Ma Musk ripete sempre la stessa formula: non confondete ciò che prevedo con ciò che desidero. E poi aggiunge una frase che pare uscita da un romanzo distopico. Dice che l’AI gli condiziona anche il sonno, che ha incubi ricorrenti generati da ciò che vede in laboratorio. È un dettaglio quasi cinematografico, che funziona benissimo nella narrativa di un uomo che alterna ottimismo cosmico e fatalismo algoritmico.
Proprio sulla colonizzazione interplanetaria torna a insistere con una naturalezza inquietante. Parla dei piani per spedire i robot Optimus su Marte entro il 2026, accompagnati da un volo Starship pronto a testare la fattibilità dell’atterraggio prima che gli esseri umani tentino la stessa impresa. Lo dice come se fosse la cosa più normale del mondo. Per chi vive immerso in tabelle di lancio, prototipi che esplodono e cicli di iterazione continua, forse lo è davvero. Ma la realtà per il resto del mondo è che mai un CEO aveva descritto la colonizzazione planetaria come una routine aziendale. L’obiettivo dichiarato è sempre lo stesso. Far diventare multiplanetaria la specie umana prima che qualche cataclisma statistico renda la Terra poco accogliente. Ma questa volta aggiunge un dettaglio. Serviranno robot esploratori, perché il pianeta rosso non è un posto dove mandare persone prima di averlo studiato come si deve.
Si passa poi a un lato sorprendentemente più umano. Commenta l’omicidio del militante conservatore Charlie Kirk, condannandolo e citando i temi della sicurezza personale e dell’escalation di tensione negli spazi pubblici. È uno dei pochi momenti in cui rinuncia alla sua abituale miscela di ironia e distacco. Sembra uno di quei rari frangenti in cui ricorda di essere un bersaglio anche lui. Forse in quel passaggio si percepisce l’effetto delle sue giornate scandite da riunioni senza tregua e sei ore di sonno controllato. Afferma che prova a eliminare ogni paura irrazionale non appena la individua. È una frase che suona come un trucco mentale da programmatore, una funzione che termina ogni processo emotivo ritenuto inutile. Aggiunge che non crede che la paura sia il killer della mente e cita Dune. Il che è ironico, considerando che proprio Herbert fece della paura una sorta di nemico primordiale. Musk, però, sembra dire che la vera minaccia è la paura non razionalizzata, quella che si insedia nel codice mentale senza essere controllata.
La parte più affascinante arriva quando unisce l’avanzamento di xAI all’antica ossessione per la teoria della simulazione. La presenta come un modo per interpretare la prevedibilità degli eventi e sostiene che gli sviluppi più interessanti sono quelli più probabili. È un paradosso filosofico mascherato da calcolo. Ricorda che se qualcuno stesse simulando il nostro futuro, smetterebbe di farlo quando diventasse noioso. Lo dice con una leggerezza che nasconde un pensiero ben più pesante: la nostra civiltà potrebbe essere un gigantesco videogioco cosmico in mano a un osservatore che cerca esclusivamente intrattenimento.
In questo senso, tutto ciò che Musk fa, dalle accuse agli sprechi governativi ai robot inviati verso Marte, sembra costruito per non fare annoiare l’osservatore. E forse, in filigrana, anche per non annoiarci. Perché la sua narrativa vive di contrasti. Un momento parla come un controllore di gestione ossessionato dall’efficienza pubblica. Quello dopo si lancia in un discorso apocalittico sull’automazione totale. Poi passa a Marte, poi a Dune, poi a una teoria cosmica che unisce fisica, filosofia e narrativa.
La forza di questo flusso disordinato ma coerente sta nella sua capacità di costruire uno scenario in cui ogni pezzo, dal più tecnico al più esoterico, diventa una tessera della stessa mappa. E la mappa racconta un mondo in cui la tecnologia non è solo strumento, ma agente narrativo. Musk lo sa bene. Sa che ogni sua frase è un acceleratore di storie. Sa che il pubblico digitale ha bisogno di narrazioni calde, non tiepide. Sa soprattutto che la sua stessa persona è diventata il punto di frizione tra ciò che la tecnologia promette e ciò che la politica non riesce a ottenere.
Il risultato finale è un racconto di potere che si autoalimenta. Un uomo che passa dalle verifiche di spesa pubblica ai robot marziani con la stessa naturalezza con cui altri passano da una riunione a una pausa caffè. Ed è proprio questa elasticità a rendere la sua comunicazione una calamita per l’attenzione collettiva. Chiunque altro verrebbe percepito come incoerente. Musk no. Perché il suo codice narrativo è scritto per osare, rompere, provocare. In fondo, per citare un vecchio ingegnere del Jet Propulsion Laboratory, la tecnologia più potente non è quella che funziona. È quella che riesce a cambiare quello in cui crediamo sia possibile.