Un caffè al Bar dei Daini – Via Pietro raimondi Roma

C’è stato un tempo in cui bastava pronunciare Silicon Valley per evocare l’epicentro globale dell’intelligenza artificiale. Quel tempo non è finito, ma è diventato più affollato, più rumoroso e decisamente più asiatico. Il recente rapporto del Center for AI Standards and Innovation del Dipartimento del Commercio statunitense, dedicato a Moonshot AI, è una fotografia che Washington forse non avrebbe voluto appendere al muro. Non perché Moonshot sia perfetta, ma perché dimostra una cosa semplice e scomoda. L’industria cinese dell’intelligenza artificiale non è più un episodio isolato chiamato DeepSeek, bensì un ecosistema con profondità crescente, competenze diffuse e una certa ostinazione strategica.

Moonshot AI, sostenuta da Alibaba e valutata intorno ai quattro miliardi di dollari, è diventata improvvisamente un nome che conta. Il suo modello Kimi K2 Thinking, rilasciato a novembre, ha sorpreso per qualità di scrittura, capacità di ragionamento e soprattutto per il rapporto costi prestazioni. Qui scatta il déjà vu. Gennaio aveva già regalato al mondo il cosiddetto DeepSeek moment, ovvero la scoperta che modelli open weight cinesi potevano competere con quelli occidentali a una frazione del costo. Kimi K2 non ha replicato lo stesso livello di adozione globale, ma ha replicato la stessa sensazione di fondo. L’aria sta cambiando.

Il punto centrale del rapporto CAISI non è che Kimi K2 sia migliore di GPT 5 o di Opus 4. Non lo è, almeno su alcuni benchmark avanzati come agentic cyber e software engineering. Il punto è che la distanza non è più abissale e che il gap si sta riducendo in un contesto di risorse limitate, sanzioni tecnologiche e accesso ridotto all’hardware più avanzato. In linguaggio da consiglio di amministrazione, questo si chiama efficienza strategica. In linguaggio geopolitico, si chiama problema.

C’è poi la questione della censura, tema che il rapporto americano maneggia con la sicurezza di chi osserva dall’esterno. Kimi K2 risulta fortemente censurato in cinese e molto meno in inglese, spagnolo e arabo. DeepSeek e i modelli Qwen di Alibaba mostrano pattern simili. Qui la tentazione è quella di liquidare la cosa come propaganda o ipocrisia tecnologica. Sarebbe un errore analitico. Quello che emerge è una sofisticazione crescente nella gestione dei layer di controllo linguistico. Non una censura monolitica, ma modulare, adattiva, contestuale. Un’architettura che dice molto sulla maturità del settore e poco sull’ingenuità.

Il benchmark CCP Narrative Bench, usato da CAISI e non reso pubblico, è di per sé un segnale interessante. Quando i benchmark diventano strumenti politici prima che scientifici, significa che l’intelligenza artificiale ha già superato la fase accademica ed è entrata in quella strategica. OpenAI e Anthropic collaborano con CAISI sulla sicurezza. Moonshot, DeepSeek e Zhipu AI finiscono sotto la lente. Il mondo dell’AI assomiglia sempre meno a una conferenza scientifica e sempre più a una partita a scacchi giocata su più tavoli.

Zhipu AI e MiniMax, entrambe con ambizioni di IPO a Hong Kong, completano il quadro di un panorama open source cinese che non è più marginale. L’open weight, tanto caro alla retorica occidentale, è diventato uno strumento di proiezione industriale anche a Pechino. Chi pensa che open significhi automaticamente innocuo o secondario, probabilmente sta ancora vivendo nel 2018.

Il discorso si allarga quando si passa dall’AI disincarnata all’intelligenza incarnata. Andrew Yao, premio Turing e decano del College of AI di Tsinghua, ha detto a Shanghai qualcosa che in molti pensano ma pochi osano affermare con chiarezza. Senza world models interpretabili, senza unificazione di ragionamento, pianificazione e controllo, l’embodied AI resta una collezione di demo. Robot che fanno una cosa alla volta, bene, ma senza comprensione del contesto. Yao chiede più dati, ma soprattutto dati diversi, raccolti con metodi scalabili e nuovi. È una critica elegante alla dipendenza ossessiva dai dataset tradizionali e sintetici.

La Cina, in questo campo, si muove come una potenza industriale classica con ambizioni digitali. Competenizioni su assemblaggio industriale, servizi domestici, sanità e ristorazione non sono folklore tecnologico. Sono prove generali di mercato. Shanghai, Guangzhou, il Guangdong con i suoi 220 miliardi di yuan di industria AI nel 2024, raccontano una storia di politiche industriali aggressive, coordinate e sorprendentemente coerenti. Quando il Partito Comunista inserisce l’intelligenza incarnata tra le priorità del quindicesimo piano quinquennale, non lo fa per curiosità accademica.

Il rischio, come ha ammesso la stessa National Development and Reform Commission, è quello della sovrapproduzione di robot troppo simili. È il classico problema cinese di eccesso di offerta in settori strategici. Ma è anche un problema che nasce solo quando un settore esiste davvero, non quando è una slide in un pitch deck.

A rendere il quadro ancora più interessante c’è la questione hardware. Huawei e SMIC continuano a spingere il nodo a sette nanometri fino a limiti che molti consideravano teorici. Il Kirin 9030, basato sul processo N+3, non è un cinque nanometri mascherato. È qualcosa di più sottile e più inquietante per chi osserva. È la dimostrazione che con DUV multipatterning, ingegneria aggressiva e accettazione di yield problematici, si può continuare ad avanzare anche senza EUV. Non abbastanza per raggiungere TSMC o Samsung, ma abbastanza per non fermarsi.

Il fatto che TechInsights sia finita nella lista delle entità inaffidabili cinesi aggiunge un ulteriore strato di ironia geopolitica. L’analista che misura il ritardo tecnologico diventa esso stesso un problema politico. Segno che i chip non sono più solo chip, ma simboli.

Mettendo insieme Moonshot AI, DeepSeek, Zhipu, l’embodied intelligence, i robot umanoidi e i Kirin a sette nanometri stiracchiati fino all’ultimo transistor, emerge una narrativa chiara. La Cina non sta cercando di vincere la gara dell’intelligenza artificiale secondo le regole scritte in California. Sta riscrivendo il campo di gioco, puntando su modelli aperti, integrazione verticale, politiche industriali locali e una tolleranza al rischio che in Occidente si è persa tra compliance e trimestrali.

La keyword è profondità. Profondità industriale, profondità di ecosistema, profondità strategica. Le keyword semantiche sono open weight, intelligenza artificiale cinese, guerra dei chip. Chi continua a leggere questa storia solo in termini di censura o di ritardo tecnologico rischia di perdere il punto. Non siamo davanti a un clone mal riuscito dell’AI occidentale. Siamo davanti a un modello alternativo, imperfetto, politicamente condizionato, ma straordinariamente determinato.

Come scriveva qualcuno al Financial Times, la vera domanda non è se la Cina raggiungerà l’Occidente nell’AI. La domanda è se l’Occidente si accorgerà in tempo che la distanza si sta riducendo mentre tutti discutono ancora di prompt e policy. In questo senso, Moonshot AI non è solo una start up. È un segnale. E i segnali, in strategia, andrebbero letti prima che diventino statistiche.