C’è un momento preciso in cui i mercati smettono di ragionare e iniziano a reagire di pancia. Di solito coincide con un fine settimana, una soffiata ben piazzata e un titolo che apre il lunedì con un meno a due cifre. Il 15 dicembre 2025, per chi osserva l’industria del software enterprise con un minimo di memoria storica, è stato uno di quei momenti. ServiceNow perde l’11,5% in una seduta, 21 miliardi di dollari di capitalizzazione evaporati come vapore acqueo, e improvvisamente il mercato decide che forse il problema non è l’acquisizione di Armis per 7 miliardi di dollari, ma il futuro stesso del software in abbonamento nell’era dell’intelligenza artificiale.
Il punto non è tanto la cifra, che per una società valutata oltre 150 miliardi è significativa ma non esistenziale. Il punto è la narrativa. Gli investitori, sempre più spesso, vendono prima di pensare. La volatilità non è più un effetto collaterale ma una strategia implicita. La parola chiave diventa rischio, e quando il rischio incontra l’intelligenza artificiale il cocktail è garantito. Basta pronunciare OpenAI, modelli generativi, automazione del lavoro e improvvisamente ogni azienda cloud diventa sospetta. Anche quelle che, numeri alla mano, crescono del 20% annuo in un mercato che definire maturo è un eufemismo.
La reazione su ServiceNow è figlia di questo clima. Da settimane il mercato guarda con diffidenza le aziende che stanno investendo pesantemente per costruire infrastrutture e servizi attorno all’intelligenza artificiale. Oracle e CoreWeave ne sanno qualcosa, con i titoli scivolati sotto il peso di un futuro percepito come nebuloso. Nel caso di ServiceNow la paura è più sottile, e per questo più interessante. L’idea che l’intelligenza artificiale possa cannibalizzare il modello SaaS tradizionale, quello fatto di licenze ricorrenti, utenti enterprise e processi di back office ben oliati, è diventata improvvisamente mainstream.
Secondo alcuni analisti, tra cui Jackson Ader di KeyBanc, ServiceNow rischia di finire nella categoria delle aziende esposte negativamente all’intelligenza artificiale nei prossimi trimestri. Il ragionamento è lineare, quasi scolastico. Se l’AI riduce il numero di lavoratori nel back office IT, diminuisce anche la domanda di servizi di help desk, workflow management e automazione dei processi che costituiscono il cuore dell’offerta ServiceNow. Meno persone, meno ticket, meno valore percepito. È una logica elegante, ma come spesso accade elegante non significa necessariamente corretta.
Questa narrativa trova terreno fertile quando si incrocia con una sequenza di acquisizioni che rompe uno schema consolidato. Quattro operazioni sopra i 500 milioni di dollari in pochi mesi per un’azienda storicamente prudente sul fronte M&A fanno rumore. Armis per 7 miliardi in trattative avanzate. Veza acquisita per una cifra che oscilla tra 1 e 1,5 miliardi. Moveworks chiusa a 2,85 miliardi dopo mesi di attesa. Un’azienda legata all’e-commerce rilevata per oltre 500 milioni in azioni. Per alcuni investitori questo è il segnale di un management in affanno, alla ricerca di crescita esterna perché quella organica potrebbe rallentare.
È la classica tesi dell’orso, costruita con una certa abilità retorica. Peccato che ignori alcuni dettagli non proprio marginali. ServiceNow cresce ancora a ritmi che Adobe e Salesforce possono solo osservare con una punta di invidia. Il 20% su base annua in un contesto macroeconomico incerto non è un segnale di debolezza, ma di resilienza. Inoltre le acquisizioni non sono casuali né disperate. Puntano tutte su due assi strategici: intelligenza artificiale applicata e cybersecurity. Due parole che, se c’è una certezza nel 2025, continueranno a comparire in ogni budget IT degno di questo nome.
La sicurezza informatica, in particolare, non è una moda passeggera. È una necessità strutturale. Ogni settimana una nuova violazione, ogni mese un nuovo attacco sofisticato, ogni trimestre una nuova regolamentazione. Rafforzare le capacità di sicurezza non è una deviazione dalla missione di ServiceNow, è un’estensione naturale. Armis e Veza non sono scommesse speculative, ma tasselli di una piattaforma che punta a diventare sempre più centrale nei processi critici delle imprese. Chi parla di cannibalizzazione dimentica che l’intelligenza artificiale non elimina la complessità, la sposta.
C’è poi un elemento politico, spesso sottovalutato dai commentatori finanziari. Il ritorno di un’amministrazione americana più permissiva sul fronte antitrust cambia radicalmente il contesto delle fusioni e acquisizioni tecnologiche. Se sotto Biden molte operazioni venivano guardate con sospetto, l’attuale clima regolatorio è decisamente più favorevole. Per un CEO come Bill McDermott, noto per la sua visione aggressiva e orientata alla scala, sarebbe quasi irresponsabile non approfittarne. Il mercato però sembra interpretare questa finestra di opportunità come un segnale di debolezza, non di forza.
Qui emerge il paradosso dell’era dell’intelligenza artificiale. Tutti ne parlano, tutti la vogliono, ma pochi sembrano accettarne le conseguenze strategiche. L’AI non distrugge automaticamente i modelli di business esistenti, li costringe a evolvere. Un’azienda come ServiceNow non vende semplicemente software di help desk, vende orchestrazione del lavoro digitale. Se cambiano i lavoratori, cambiano anche i flussi. Ma il bisogno di coordinamento, sicurezza, governance e automazione aumenta, non diminuisce.
C’è una certa ironia nel vedere gli investitori spaventarsi proprio mentre le aziende cercano di anticipare il cambiamento. Si punisce chi investe perché investe troppo, salvo poi lamentarsi quando la crescita rallenta. Si teme la cannibalizzazione senza considerare che l’alternativa è l’obsolescenza. In questo senso la reazione del mercato sembra più emotiva che razionale, più figlia dell’ansia da intelligenza artificiale che di un’analisi fredda dei fondamentali.
Il titolo dell’informazione, oggi, non è tanto l’acquisizione di Armis quanto la fragilità della fiducia degli investitori. Un mercato che brucia 21 miliardi di dollari in poche ore su una notizia ancora non confermata dimostra quanto il sentiment sia diventato volatile. La vera domanda non è se ServiceNow stia crescendo abbastanza velocemente, ma se il mercato sia ancora capace di distinguere tra rischio reale e paura narrativa.
Bill McDermott, nel bene e nel male, non è un CEO che gioca in difesa. Il suo compito non è rassicurare il mercato trimestre dopo trimestre, ma costruire una piattaforma che resti rilevante nei prossimi dieci anni. Questo significa fare scelte che nel breve termine possono sembrare aggressive o persino azzardate. Ma è esattamente questo il tipo di leadership che ha permesso a ServiceNow di diventare ciò che è oggi.
Forse gli investitori dovrebbero ricordare una vecchia regola non scritta della tecnologia. Quando tutti sono convinti che un modello di business stia per morire, di solito è il momento in cui quel modello inizia a trasformarsi. E chi investe nella trasformazione prima degli altri spesso paga un prezzo in borsa, per poi raccogliere i frutti quando il rumore si spegne. Nel frattempo, il mercato continuerà a vendere prima e a fare domande dopo. È un’abitudine difficile da estirpare, soprattutto nell’epoca dell’intelligenza artificiale e delle reazioni istantanee.