Il Meeting di Rimini di Agosto ha aperto quest’anno un dibattito che più che accademico è quasi epico: “Siamo davvero liberi, il libero arbitrio fra condizioni e nuovi inizi?”. Domanda semplice sulla carta, capace di far vacillare le certezze di filosofi, neuroscienziati e sviluppatori di intelligenza artificiale. La libertà, quel concetto che gli occidentali celebrano come apice del valore individuale, si scopre fragile davanti ai dati, ai condizionamenti biologici e alle macchine che apprendono più di noi ogni giorno. Non era una discussione a tesi contrapposte: era un confronto serrato, quasi un duello tra chi difende la coscienza come fondamento della libertà e chi ricorda che il cervello è un organo condizionato dalla storia evolutiva.
Mario De Caro ha preso la parola con la sua tipica lucidità tagliente. La libertà non è un’illusione totale, sostiene, ma va cercata nei confini della coscienza e dei valori. Citando Hume e Sapolski, ricorda che molti dei nostri atti nascono da processi inconsci o influenze genetiche e sociali. Gli esperimenti di psicologia cognitiva lo confermano: spesso ci inventiamo motivazioni a posteriori, come se fossimo spettatori delle nostre decisioni. Ma De Caro non si arrende al determinismo: la libertà si manifesta quando la scelta è cosciente, legata al nostro “io profondo”, anche se si tratta di decisioni moralmente discutibili. Sposarsi per soldi, se fatto con piena consapevolezza, è esercizio di libero arbitrio. L’ironia sta nel fatto che la tecnologia, i social media e i continui feed di notizie riducono drasticamente questo spazio, e l’educazione diventa la vera arma per difendere ciò che resta della nostra autonomia.
La prospettiva compatibilista di De Caro è spietatamente logica: libertà e determinismo possono coesistere. Anche se ogni azione è spiegabile con cause precedenti, ciò che conta è la causalità della volontà cosciente. Ordinare un risotto perché ieri si è mangiata pasta resta libero se corrisponde ai nostri desideri consapevoli. L’illusione romantica di un libero arbitrio assoluto è solo un mito consolatorio. Il compatibilismo non elimina la libertà, la incasella dentro regole precise, e in quel vincolo la rende più reale, più concreta.
Vallortigara sposta il dibattito sul terreno empirico. L’esperimento di Libet, con il suo potenziale di prontezza che precede la consapevolezza della decisione, ha fatto scuola: la coscienza sembrerebbe sempre in ritardo, l’illusione del libero arbitrio confermata. Ma il neuroscienziato smonta la narrativa: premere un tasto in laboratorio non equivale a esercitare il libero arbitrio reale. Il Readiness Potential potrebbe essere rumore cerebrale casuale, oscillazioni sfruttate dal cervello per innescare l’azione. La libertà non si misura con microsecondi tra impulso e coscienza, si manifesta nel progetto, nell’intenzione, nella scelta consapevole.
I limiti biologici diventano paradossalmente la fonte della libertà. I pulcini nascono con neuroni che rispondono a stimoli specifici, volti sintetici, pattern evolutivi. Non è costrizione, è accelerazione dell’apprendimento. Senza questi vincoli innati, la libertà individuale richiederebbe tempi impossibili, errori insostenibili. La libertà è un progetto evolutivo incarnato, non un concetto astratto da convegno filosofico. Quello che percepiamo come limite diventa il terreno dove possiamo costruire decisioni autonome e significative.
Il dibattito si sposta inevitabilmente sul digitale e sull’IA. De Caro riflette sui Large Language Models come ChatGPT: se un sistema artificiale si comportasse come un umano, sarebbe giusto negargli comprensione solo perché è fatto di silicio? La risposta è prudente: comprensione sì, coscienza no. I LLMs generalizzano dai dati forniti, ma non possiedono metacomprensione. La libertà, avverte De Caro, implica capacità di riflessione, scelta consapevole e consapevolezza della propria conoscenza. L’adozione del principio di precauzione etica diventa inevitabile: la superintelligenza è un rischio teorico, ma la storia ci insegna che l’ignoto può essere letale se non regolamentato.
Vallortigara insiste sulla differenza tra calcolo e significato. Le macchine attuali operano su correlazioni, probabilità condizionali, senza cogliere la sostanza. La Stanza Cinese di Searle e i veicoli pensanti di Braitenberg mostrano come noi proiettiamo psicologia complessa su meccanismi elementari. La comprensione biologica nasce dall’incorporazione: il significato si costruisce attraverso sensazioni, preferenze, corpi. Una macchina può simulare la frase “questo vino sa di tappo”, ma non esperisce la percezione, il gusto, l’associazione corporea. Il significato biologico richiede embodiment, corpo, esperienza, storia evolutiva. Senza questo, non c’è libertà, non c’è senso reale, c’è solo simulazione.
La libertà emerge così come esperienza incarnata, non teoria astratta. Non si misura con algoritmi o microsecondi di attività cerebrale. Scatta quando ci chiediamo il perché delle cose, quando riflettiamo sulle nostre decisioni e assumiamo responsabilità. Possiamo sentirci liberi anche in condizioni restrittive e prigionieri pur nella comodità della vita digitale. Il criterio non è il contesto, ma la coscienza attiva, la capacità di discernere, il rapporto tra vincoli biologici e scelta morale.
Il Meeting di Rimini ha tracciato una mappa complessa: libertà biologica, cognitiva, morale e digitale convivono, si intrecciano e si sfidano. È gioco di limiti, vincoli evolutivi, algoritmi predittivi, coscienza e scelte consapevoli. Ignorare il dialogo tra cervello, corpo e macchina significa lasciare che la tecnologia decida per noi. La libertà non è un dono da celebrare, ma un’esperienza fragile, incarnata e coltivata. Nel futuro digitale, capire questa dinamica non è filosofia da salotto: è strategia di sopravvivenza culturale, intellettuale e pratica. La sfida non è sapere se siamo liberi, ma imparare a esserlo, in ogni atto consapevole, prima che la macchina ci suggerisca cosa pensare, scegliere, volere.
