Arriva il momento in cui una piattaforma tecnologica smette di essere solo un’azienda e diventa un dossier di sicurezza nazionale. TikTok negli Stati Uniti ha superato quel punto da tempo. Ora, con la firma di un accordo vincolante che ristruttura radicalmente la sua presenza americana, entra ufficialmente in una nuova fase. Non è una cessione classica, non è una nazionalizzazione mascherata, non è nemmeno una vittoria politica netta. È una soluzione da manuale di capitalismo geopolitico avanzato, scritta più da avvocati e strateghi che da ingegneri.
La notizia chiave è semplice solo in apparenza. ByteDance, la holding cinese che controlla TikTok, ha accettato di separare le attività statunitensi in una nuova entità chiamata TikTok USDS Joint Venture LLC. L’accordo è stato firmato, è vincolante e ha una data di efficacia fissata al 22 gennaio 2026. Questo punto è cruciale perché sposta la discussione dal se succederà al come e con quali conseguenze. Negli Stati Uniti TikTok non verrà bandito, almeno per ora. I suoi circa 170 milioni di utenti americani possono continuare a scorrere, ballare, informarsi e farsi influenzare. La questione vera è chi controlla cosa succede sotto il cofano.
Il nuovo assetto proprietario è un esercizio di equilibrismo degno di una banca centrale. Oracle, Silver Lake e MGX, fondo con base ad Abu Dhabi ma considerato alleato strategico di Washington, saranno i tre investitori gestori. Ognuno deterrà il 15 per cento, per un totale del 45 per cento. Affiliati di investitori già presenti in ByteDance controlleranno il 30,1 per cento. ByteDance stessa resterà sotto la soglia fatidica del controllo con il 19,9 per cento. Formalmente non comanda più. Sostanzialmente non sparisce. È esattamente il punto.
La legge americana che ha portato a questo risultato è quella approvata dal Congresso nel 2024, parte di un pacchetto bipartisan su sicurezza nazionale e politica estera. La logica è brutale nella sua semplicità. O ByteDance riduce la propria partecipazione sotto il 20 per cento, oppure TikTok viene bandito dagli Stati Uniti. La Corte Suprema ha confermato la legittimità della norma. Joe Biden l’ha firmata. Donald Trump, tornato alla Casa Bianca, ha usato la leva degli ordini esecutivi per rinviare più volte l’entrata in vigore del ban, fino all’ultima estensione che porta la scadenza a gennaio 2026. Politica dura, ma con margini negoziali.
Il cuore dell’accordo non è però la percentuale azionaria. È l’algoritmo. Qui entra in gioco la parola più abusata e meno compresa del dibattito tecnologico contemporaneo. Sicurezza. Secondo il memorandum interno firmato dal CEO Shou Chew, la joint venture statunitense sarà responsabile della protezione dei dati degli utenti americani, della sicurezza dell’algoritmo di raccomandazione, della moderazione dei contenuti e della garanzia sull’integrità del software. Oracle sarà il trusted security partner, incaricato di auditare, validare e certificare il rispetto dei cosiddetti National Security Terms.
Detto in modo meno diplomatico. Gli Stati Uniti non si fidano di Pechino. Non si fidano che un algoritmo così potente, capace di modellare opinioni, consumi e attenzione di una generazione intera, resti sotto l’influenza di una società soggetta alle leggi cinesi sulla sicurezza nazionale. Non servono prove di manipolazione attiva. Basta la possibilità. Nel mondo post cloud, il rischio teorico è già un rischio reale.
Il compromesso trovato è elegante e ambiguo. ByteDance non venderà l’algoritmo. Lo concederà in licenza. TikTok USDS userà l’algoritmo esistente come base per riaddestrare un nuovo sistema utilizzando esclusivamente dati degli utenti statunitensi, all’interno di un ambiente tecnologico messo in sicurezza e supervisionato da Oracle. In teoria questo dovrebbe garantire che il feed americano sia immune da influenze esterne. In pratica, come ha fatto notare più di un analista, resta aperta la domanda fondamentale. Chi controlla davvero il codice sorgente, le logiche di ranking, i pesi del modello, le evoluzioni future.
La Cina, dal canto suo, non è un attore passivo. Dal 2020 ha introdotto controlli all’export su tecnologie considerate sensibili, tra cui rientrano esplicitamente i sistemi di raccomandazione basati su intelligenza artificiale. Questa norma aveva già fatto saltare un precedente tentativo di accordo durante la prima amministrazione Trump, quando si parlava di un coinvolgimento di Oracle e Walmart. Oggi Pechino non ha bloccato l’intesa, ma il silenzio è più tattico che rassicurante. Finché non c’è un trasferimento formale di tecnologia, solo una licenza, il problema viene aggirato senza essere risolto.
Sul piano geopolitico il timing non è casuale. Dopo anni di tensioni, dazi e ritorsioni, Washington e Pechino hanno riaperto canali di dialogo economico. Un incontro tra Trump e Xi Jinping in autunno ha prodotto un abbassamento della temperatura, anche se senza annunci clamorosi. TikTok diventa così una valvola di sfogo. Un segnale che una convivenza regolata è possibile, almeno quando sono in gioco interessi economici enormi e un pubblico di centinaia di milioni di utenti.
Il paradosso è evidente. Gli Stati Uniti accusano TikTok di essere una minaccia alla sicurezza nazionale, ma nel frattempo politici di primo piano continuano a usarlo come strumento di comunicazione. Trump ha lanciato un account ufficiale della Casa Bianca. Biden lo aveva fatto durante la campagna elettorale. La piattaforma è vista come pericolosa, ma troppo potente per essere ignorata. Una dinamica che dice molto più sulla fragilità dell’ecosistema informativo occidentale che sulle intenzioni di ByteDance.
Dal punto di vista industriale, l’accordo è anche una dichiarazione di principio sul futuro delle big tech globali. L’epoca delle piattaforme veramente transnazionali sta finendo. Al suo posto emerge un modello di frammentazione regolata. Stessa app, marchio identico, ma strutture societarie, infrastrutture dati e governance diverse a seconda del Paese. Una sorta di sovranità digitale applicata per via contrattuale invece che legislativa.
Non mancano le critiche interne agli Stati Uniti. Alcuni legislatori sostengono che qualsiasi presenza di ByteDance, anche sotto il 20 per cento, sia inaccettabile. Altri fanno notare che non esistono prove concrete di manipolazione dei contenuti da parte del governo cinese. Le associazioni per la libertà di espressione continuano a considerare il ban una violazione del Primo Emendamento mascherata da misura di sicurezza. Tutte obiezioni legittime. Nessuna sufficientemente forte da fermare una macchina politica che ha ormai deciso che il rischio zero non esiste, ma il rischio gestito sì.

La vera ironia è che l’algoritmo probabilmente cambierà poco. Come osservano diversi economisti e studiosi di piattaforme digitali, il modello di raccomandazione di TikTok funziona perché è estremamente efficiente nel massimizzare engagement. Stravolgerlo significherebbe distruggere valore. Nessun investitore americano lo vuole. Nessun regolatore lo chiede apertamente. La sicurezza, in questo contesto, diventa più una questione di governance che di matematica.
Alla fine, la domanda non è se l’accordo sia un done deal. Formalmente lo è. I contratti sono firmati, le scadenze definite, i partner nominati. La domanda vera è se questo modello rappresenti il futuro della tecnologia globale. Un mondo in cui l’intelligenza artificiale non è solo una questione di innovazione, ma di alleanze, confini e compromessi opachi. TikTok negli Stati Uniti sopravvive, ma lo fa trasformandosi in qualcosa di diverso. Meno cinese, non del tutto americano, profondamente politico.

Chi cerca una conclusione netta resterà deluso. Questa non è una storia che si chiude, è una storia che si stabilizza temporaneamente. Come spesso accade quando tecnologia, potere e paura si incontrano, la soluzione non è elegante né definitiva. È semplicemente quella che conviene di più a tutti, almeno per adesso.