Intelligenza Artificiale, Innovazione e Trasformazione Digitale

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Nuove prospettive su come la tecnologia ai sta plasmando il futuro del business e della finanza

Chi siete? cosa portate? Ma quanti siete? Un fiorino! Il gioco dei dazi: una tregua di 90 giorni tra Stati Uniti e Cina, ma a quale prezzo?

L’accordo siglato lunedì tra Stati Uniti e Cina per sospendere la maggior parte dei dazi doganali reciproci per un periodo di 90 giorni ha suscitato una serie di reazioni, tra cui un sensibile rialzo dei mercati azionari. Il motivo di questo entusiasmo è chiaro: la speranza che l’allentamento delle tensioni commerciali tra le due potenze mondiali possa finalmente disinnescare una guerra commerciale che sembra non finire mai. Ma come spesso accade nelle trattative internazionali, dietro le promesse di una tregua ci sono sempre i soliti interrogativi. Vale la pena credere che questo accordo sia solo il primo passo verso una distensione reale, o si tratta di una mossa strategica per guadagnare tempo mentre entrambe le nazioni continuano a tessere le loro strategie sullo scacchiere globale?

Il vangelo secondo Nvidia: l’intelligenza artificiale vale 2 trilioni, parola di Wedbush

Se la Silicon Valley fosse una religione, oggi il suo dio si chiamerebbe Jensen Huang, il suo vangelo sarebbe il chip H100 di Nvidia, e il suo profeta sarebbe Daniel Ives di Wedbush. Secondo la sua ultima rivelazione agli investitori, 30 nomi tech guideranno la nuova crociata digitale: quella dell’AI Revolution, un’ondata tecnologica che promette di riscrivere le regole della produttività, dell’economia e del potere geopolitico. In altre parole, benvenuti nella Quarta Rivoluzione Industriale: stavolta non servono motori a vapore, bastano GPU e Large Language Models.

Space Oddity generativa: l’epilogo del primo atto dell’intelligenza artificiale

Houston, abbiamo un problema. E non è un bug. È un’intera industria che si è convinta di poter decollare con la sola spinta della narrazione. Oggi l’intelligenza artificiale generativa non è in panne, ma in orbita instabile. Come l’astronauta Major Tom in Space Oddity di David Bowie: fluttua, elegante e seducente, ma scollegata dalla base operativa, cioè dalla realtà.

In queste settimane, tre headline hanno fatto da sveglia alla Silicon Valley, e a chi ancora sognava un’AI che scrive codice da sola, genera arte, risolve ogni inefficienza e nel tempo libero salva anche il mondo. Il problema è che mentre il sogno cresceva, i conti andavano in direzione opposta. E il valore percepito, come spesso accade nei deliri da bull market, ha fatto il salto quantico: da potenziale a miraggio.

Trump: 80 e stò

Google Assediata: Antitrust, AI e il tramonto del monopolio della ricerca

Questa estate a Mountain View non serviranno solo condizionatori. Serviranno avvocati, lobbisti e un discreto quantitativo di ansiolitici. Nella sede centrale di Google, l’aria si sta facendo densa di preoccupazioni, non solo per l’aria condizionata mal tarata, ma per il rischio concreto di un ridimensionamento epocale del suo core business: la ricerca.

Dopo un processo durato tre settimane, che si è chiuso a Washington con toni da processo storico (perché in effetti lo è), Google è in attesa della decisione di un giudice federale che potrebbe stravolgere le fondamenta economiche su cui l’azienda ha costruito il suo impero. Non è più questione di se, ma di quanto e come il giudice vorrà tagliare le unghie al colosso della Silicon Valley. E non parliamo di dettagli tecnici, ma del cuore pulsante di Alphabet: il motore di ricerca.

Stripe sfida il futuro: intelligenza artificiale, stablecoin e Nvidia per dominare i pagamenti globali

Non è un keynote, è una dichiarazione di guerra. Stripe, il gigante silenzioso del fintech da mille miliardi di dollari in transato annuale, ha aperto il sipario al suo evento Stripe Sessions con una raffica di annunci che sembrano usciti da una roadmap del 2030. Ma no, è tutto qui, oggi, e ha il sapore di una piattaforma che non solo vuole processare pagamenti, ma diventare l’infrastruttura dominante per ogni bit che si muove nel mondo del denaro digitale.

Il cuore della rivelazione è il nuovo foundation model AI per i pagamenti. Non un LLM da salotto, ma un colosso addestrato su decine di miliardi di transazioni reali. Emily Glassberg Sands, responsabile dati di Stripe, non si è trattenuta nel vantarsene: il modello “cattura centinaia di segnali sottili che altri non vedono”. Tradotto: Stripe adesso vede prima degli altri dove sta il rischio, chi bluffa e chi fa sul serio.

Il prossimo passo di Jony Ive: un’analisi profonda dell’innovazione e delle sue conseguenze non intenzionali

Jony Ive, l’ex designer di Apple ormai celebre per aver progettato l’iPhone, l’iPad, e l’Apple Watch, è sempre stato un maestro nel trasformare idee eleganti in prodotti iconici. Tuttavia, in una recente intervista con Stripe, ha rivelato un lato più introspettivo, ammettendo gli effetti collaterali negativi che possono emergere dalle stesse innovazioni che ha contribuito a creare. Il suo prossimo progetto, una collaborazione con OpenAI, sembra essere guidato dal desiderio di affrontare le conseguenze non intenzionali che la tecnologia ha avuto sulla società, in particolare riguardo l’iPhone. Per Ive, questa riflessione non è solo un pensiero passeggero, ma una forza trainante dietro il lavoro che sta sviluppando nel silenzio.

Meta richiama Robert Fergus il cofondatore di FAIR da Google: ritorno strategico o disperato tentativo di rinascita?

Robert Fergus, uno dei padri fondatori del laboratorio FAIR (Fundamental AI Research) di Meta, torna a casa dopo cinque anni trascorsi come direttore della ricerca presso Google DeepMind. La sua nomina arriva in un momento critico per Meta, che cerca di rilanciare la propria leadership nell’intelligenza artificiale dopo l’uscita di Joelle Pineau e una fuga di talenti verso startup e il gruppo GenAI interno.

Fergus, che aveva lasciato Meta nel 2018 per unirsi a DeepMind, ha ora il compito di guidare FAIR in una nuova fase di sviluppo. Il laboratorio, noto per aver sviluppato i primi modelli LLaMA, ha recentemente perso terreno a favore di GenAI, responsabile del più avanzato LLaMA 4. La sfida per Fergus sarà quella di riportare FAIR al centro dell’innovazione AI di Meta, in un contesto in cui la concorrenza è più agguerrita che mai.

Il ritorno di Fergus rappresenta un tentativo di Meta di recuperare terreno nel campo dell’AI, puntando su una figura di comprovata esperienza e conoscenza dell’azienda. Tuttavia, resta da vedere se questa mossa sarà sufficiente a invertire la tendenza e a riportare FAIR ai fasti di un tempo.

Il vero business dell’AI generativa: vendere trasformazioni immaginarie da 5 milioni

In un mondo aziendale che si aggrappa disperatamente a qualsiasi buzzword possa suonare futuristica durante un consiglio di amministrazione, l’intelligenza artificiale generativa si è trasformata in una nuova forma di spettacolo aziendale. Una messinscena lucidata a dovere da power point, executive summary e sessioni di design thinking che odorano di caffè bruciato e PowerBI.

La media? Cinque milioni di dollari a progetto. L’impatto? Una probabilità su dieci di ottenere un risultato che valga qualcosa.

NTT vuole il pieno controllo di NTT DATA: un’operazione da 20 miliardi per riscrivere il futuro dell’IT giapponese

Nippon Telegraph and Telephone (NTT), il colosso delle telecomunicazioni giapponese, ha annunciato l’intenzione di acquisire la totalità delle azioni di NTT Data, la sua controllata nel settore dei servizi IT. Attualmente, NTT detiene circa il 57,7% di NTT Data e prevede di lanciare un’offerta pubblica d’acquisto (OPA) per rilevare le restanti azioni, con un premio del 30% al 40% rispetto al prezzo di mercato, per un valore complessivo di circa 3 trilioni di yen (20,9 miliardi di dollari).

Netflix ridisegna la sua interfaccia: arriva la ricerca con AI generativa e la TikTok-izzazione dello streaming

Netflix si rifà il trucco, ma stavolta con bisturi di silicio e un’anima di machine learning. Niente facelift estetico fine a sé stesso: questa volta il colosso dello streaming ha svelato una rivoluzione strutturale del suo prodotto, puntando tutto su intelligenza artificiale generativa e feed verticali in pieno stile TikTok. L’obiettivo? Farci scoprire contenuti più in fretta, o almeno darci l’illusione di avere il controllo mentre ci perdiamo nei soliti 20 minuti di scroll compulsivo prima di arrenderci a rivedere Breaking Bad per la settima volta.

Crollo Google: l’inizio della fine o solo un campanello d’allarme?

Sette percento. In una giornata. Per un’azienda come Google, pardon Alphabet, non è un piccolo raffreddore da mercato: è una febbre improvvisa, di quelle che ti costringono a fermarti e domandarti se è solo influenza o l’inizio di qualcosa di più serio. Il tonfo è avvenuto dopo la testimonianza di Eddy Cue, alto dirigente Apple, in un’aula di tribunale a Washington. Cue, con la solennità tipica di chi sa che sta dicendo qualcosa di potenzialmente storico, ha ammesso che per la prima volta in assoluto il volume di ricerca su Safari – dove Google è ancora il motore di default è diminuito. Non rallentato. Non stagnato. Diminuito.

Questa frase, lanciata in aula quasi come una bomba ad orologeria, ha avuto un eco immediato a Wall Street. Il mercato non ama le sorprese, e meno ancora ama i segnali di declino sistemico. Ma il punto è: davvero è una sorpresa?

OpenAI taglia la fetta di Microsoft: la nuova partita del potere nell’IA

OpenAI ha deciso di ridurre significativamente la quota di ricavi destinata a Microsoft, passando dal 20% al 10% entro il 2030. Questa mossa fa parte di una più ampia ristrutturazione che mantiene il controllo nelle mani del consiglio non profit di OpenAI, limitando così l’autorità del CEO Sam Altman.

La decisione di mantenere la struttura non profit, abbandonando i piani per diventare un’entità for-profit, è stata presa dopo consultazioni con leader civici e procuratori generali di California e Delaware. Questo cambiamento complica il rapporto con Microsoft, che ha investito 13 miliardi di dollari in OpenAI dal 2019.

Dollaro debole, tech in affanno: quando la valuta si mangia i margini e congela gli investimenti

Non serve un esperto di geopolitica monetaria per capire che quando il dollaro va giù, qualcosa scricchiola nel tempio dorato delle Big Tech. Non si tratta solo di una dinamica macroeconomica da manuale da primo anno di economia, ma di un’onda lunga che rischia di travolgere margini, guidance e peggio ancora la propensione al rischio di chi finanzia l’innovazione.

Quando l’intelligenza artificiale uccide il suo padrino: il paradosso esistenziale del venture capital

Non c’è metafora migliore di un unicorno con un teschio sorridente per raccontare lo stato d’animo dell’attuale venture capital alle prese con l’intelligenza artificiale. Ironico, surreale, quasi beffardo. Perché oggi i VC (venture capitalist, non Viet Cong), dopo aver gettato benzina sul fuoco dell’hype AI, si ritrovano a contemplare le fiamme che potrebbero consumare proprio il loro stesso modello di business. Non per una questione etica, né per scrupolo umano. Solo per pura sopravvivenza.

Tesla si affida alla visione artificiale in cina: Musk rottama lidar e flirta con pechino

Se c’è una cosa che Elon Musk sa fare oltre a creare polemiche e a perdere tempo su X fingendo di essere un meme umano è annusare dove tira il vento. E in questo momento, il vento soffia dritto da Pechino, profuma di yuan, ma anche di controllo governativo stile Panopticon 3.0. La notizia che Tesla abbia deciso di affidarsi solo a sistemi di visione tramite telecamere per il suo sviluppo dell’autonomia in Cina, lasciando fuori i sensori lidar, è molto più di una semplice scelta tecnica: è una mossa politica, strategica, ideologica. E non è un’esagerazione chiedersi se Elon abbia simbolicamente preso la tessera del Partito Comunista Cinese, magari insieme a un aggiornamento software.

Un caffè al Br dei Daini Big Tech contro i dazi: l’AI non si ferma, neanche con Trump

Il mondo si sta frantumando in blocchi economici, le guerre commerciali sono il nuovo status quo e i dazi una costante minaccia all’efficienza globale. Ma nel cuore di questa tempesta geopolitica, le grandi aziende tech americane stanno facendo una cosa sorprendente: continuano a spendere come se nulla fosse. Anzi, accelerano. Nonostante i venti contrari alimentati da Trump e le tensioni con la Cina, Amazon, Meta, Microsoft e soci sembrano vivere in una bolla isolata, alimentata a colpi di GPU, data center e intelligenza artificiale.

Meta ha spiazzato tutti mercoledì scorso, alzando la previsione di spesa per il 2025 dell’8%, portandola fino a 72 miliardi di dollari. Non sono briciole, ma investimenti pesanti in infrastrutture che servono a sostenere le sue ambizioni nel campo dell’AI. E no, non è la solita narrativa da earnings call. I soldi li stanno davvero spendendo. Il cuore di questo aumento? Data center, ovviamente. Perché senza data center non c’è AI, e senza AI, oggi, sei irrilevante.

Microsoft diventa regina del mercato: Nadella Mr. Azure sorpassa Apple e si prende lo scettro del Trillion Game

Satya Nadella  (telugu సత్యనారాయణ నాదెళ్ల, urdu نادیلا ستیہ ناراینہ)  può pure sorridere, con quel mezzo ghigno da guru zen della Silicon Valley. Dopo anni in cui Apple si prendeva tutte le copertine e le standing ovation, ora è Mr. Azure a prendersi l’applauso. Microsoft ha chiuso la settimana con una capitalizzazione monstre di 3.235 trilioni di dollari, superando Apple, ferma a 3.07 trilioni. L’ironia? Nessun miracolo, nessuna rivoluzione. Solo execution chirurgica e crescita costante. Esattamente quello che gli investitori cercano in tempi di isteria monetaria e geopolitica da Far West.

Un caffè al Bar dei Daini: Apple e Amazon tra nuvole tossiche, dazi di Trump e tribunali: benvenuti nell’era post-illusione tech


C’era una volta il rally tecnologico. Mercoledì, Meta e Microsoft avevano fatto brillare gli occhi a Wall Street come un bambino davanti alla vetrina di una pasticceria. Giovedì, invece, Apple e Amazon hanno spento la festa come uno zio ubriaco a un matrimonio: le trimestrali sono arrivate puntuali, ma l’effetto è stato un atterraggio morbido, quasi anestetico. La crescita? Un timido +5% per Apple e un più frizzante +9% per Amazon. Numeri dignitosi, ma assolutamente “normali”. Parola maledetta per chi vive e muore di storytelling iper-crescita.

Però qui la contabilità è solo la superficie. La vera frustrazione degli investitori si nasconde dietro una sigla antica e velenosa: dazi. Trump, che non ha ancora smesso di flirtare con le leve protezionistiche come fossero il telecomando del caos globale, ha rimesso sul tavolo le tariffe sull’import dalla Cina. E l’intero comparto tech americano è improvvisamente diventato un castello di vetro.

Civitai cede alla stretta della censura: il Far West dell’arte AI si piega a Visa & moralisti

Civitai, piattaforma una volta celebrata come la terra promessa dell’AI-generata senza filtri, ha improvvisamente sterzato verso il puritanesimo digitale con l’introduzione di linee guida che suonano come l’ennesimo necrologio alla libertà creativa in rete. In nome della “compliance”, la comunità si è risvegliata in un incubo fatto di policy vaghe, monetizzazione amputata e contenuti spariti nel nulla.

La svolta è arrivata come una mazzata la settimana scorsa: regole ferree che vietano tutto ciò che odora di devianza digitale. Incesto? Vietato. Diaper fetish? Sparito. Autolesionismo, bodily fluids e ogni altra manifestazione “estrema”? Bannata. L’apocalisse per chi da anni usava la piattaforma per esplorare le proprie fantasie visive più bizzarre o semplicemente per generare arte fuori dagli schemi. Ma attenzione, non stiamo parlando di una porno-piattaforma: Civitai non è mai stato OnlyFans for LoRAs. Il suo pubblico includeva furries, fan di anime adult e comunità BDSM digitali, ma anche artisti, tecnici e ricercatori.

Gli investitori di Xai svelano le chiavi del successo: il reinforcement learning è davvero obsoleto?

La Silicon Valley è in piena transizione. Le buzzword si rincorrono, gli investimenti pivotano da un trend all’altro con l’agilità di un algoritmo impazzito, e oggi al centro della scena c’è Xai, startup blockchain e IA, uscita dal cilindro della scuderia Elon Musk-style, supportata da colossi come a16z e Multicoin Capital. Mentre la stampa generalista recita il rosario delle solite promesse – decentralizzazione, intelligenza artificiale, democratizzazione dell’accesso – dietro le quinte, gli investitori iniziano a porsi una domanda che pochi osano formulare ad alta voce: il reinforcement learning è già superato?

Il caso Xai è emblematico. L’azienda, che si definisce una “AI-native blockchain”, sta tentando di colonizzare un territorio che fino a ieri era dominato da soluzioni che impilavano modelli pre-addestrati e RLHF (Reinforcement Learning from Human Feedback). La promessa? Una rete progettata per agenti IA autonomi che interagiscono on-chain, senza umani a regolare il flusso. In teoria, un paradiso per chi sogna DAO alimentate da intelligenze artificiali, contratti intelligenti che si modificano da soli, ed economie algoritmiche dove l’umano è spettatore più che protagonista.

Alibaba sfida gli dei dell’AI: la Cina ora parla il linguaggio di Qwen3

Mentre l’Occidente dorme sugli allori di ChatGPT, Alibaba si sveglia di soprassalto e lancia la terza generazione del suo modello di intelligenza artificiale open source: Qwen3. Non si tratta di un semplice aggiornamento, ma di una vera e propria dichiarazione di guerra simbolica e tecnologica, fatta di miliardi di parametri, codice open source e una narrativa cinese sempre meno sottomessa al monopolio americano. L’annuncio, avvenuto a Hangzhou per bocca di Alibaba Cloud, sancisce non solo un balzo evolutivo nella corsa globale all’AI, ma anche l’ascesa incontestabile del modello cinese all’interno della comunità open source mondiale.

Otto modelli, da 600 milioni a 235 miliardi di parametri, distribuiti con la stessa disinvoltura con cui si carica un’app su GitHub o Hugging Face, dimostrano che l’era in cui solo gli Stati Uniti detenevano la leadership del pensiero computazionale sta volgendo al termine. Il Qwen3-235B, la punta di diamante della famiglia, ha superato i mini modelli di OpenAI come o3-mini e o1, e anche l’R1 di DeepSeek, in ambiti dove solitamente si celebrava solo l’inglese algoritmico: comprensione linguistica, conoscenza specialistica, matematica e programmazione. E lo ha fatto da open source. Ironico.

Un caffè al Bar dei Daini Meta e Microsoft contro la paranoia da recessione: la realtà tecnologica batte la narrativa economica

1 Maggio, festa dei lavoratori, il BAR è giustamente chiuso!

Nel teatro sempre più disordinato dell’economia americana, dove la politica commerciale di Donald Trump gioca al flipper tra dazi, minacce e improvvisi rovesciamenti, la narrazione dominante racconta di imprese che tremano all’orizzonte di una recessione. La volatilità, l’incertezza, e la paranoia sono moneta corrente nei salotti dei macroeconomisti e nei report delle banche centrali. Eppure, due colossi della tecnologia americana hanno appena gettato un secchio d’acqua gelata su queste ansie da crollo: Microsoft e Meta, in barba al mood catastrofista, hanno pubblicato risultati trimestrali sorprendentemente robusti. E non stiamo parlando di briciole.

Susan Li, la Chief Financial Officer di Meta, ha fotografato un mese di aprile più roseo del previsto. A parte un evidente freno della spesa da parte delle piattaforme asiatiche di e-commerce che invadono il mercato americano (Temu e Shein, i due dragoni digitali low-cost), tutto il resto del panorama appare, nella sua parole, “sano”. Nessun collasso imminente, nessuna fuga dai consumi, niente che somigli nemmeno vagamente a un preludio recessivo. L’economia reale, almeno quella che scorre nei cavi in fibra e nei data center, sembra immune alle tensioni geopolitiche e tariffarie.

Amazon scarica Trump sulle tariffe: il costo politico di dire la verità ai consumatori

L’America è il paese dove la verità è facoltativa, soprattutto se minaccia gli interessi economici o l’ego politico di un ex presidente in campagna permanente. Martedì scorso, una notizia firmata Punchbowl News ha fatto tremare l’asse Amazon-Trump: il colosso dell’e-commerce avrebbe voluto mostrare ai consumatori quanto del prezzo finale di un prodotto deriva dalle tariffe imposte dagli Stati Uniti sulla Cina. Un’iniziativa di trasparenza che, in teoria, dovrebbe essere applaudita. In pratica? È stata subito bollata come “atto ostile e politico” dalla portavoce dell’ex presidente Donald Trump. La reazione isterica non sorprende: dire ai cittadini quanto realmente pagano in più per effetto di decisioni politiche non è mai stato uno sport popolare in tempo di elezioni.

L’idea attribuita ad Amazon — poi smentita con affanno dal portavoce Tim Doyle era di indicare sui prodotti venduti attraverso Amazon Haul (la sezione discount lanciata nel 2023 per rincorrere Temu e Shein) l’incidenza delle tariffe, in particolare il nuovo balzello del 145% su molti beni d’importazione dalla Cina.

Cos’è un Inference Provider e perché è fondamentale nella AI?

Nel panorama sempre più complesso dell’intelligenza artificiale (IA), gli Inference Provider svolgono un ruolo fondamentale, fornendo l’infrastruttura necessaria per eseguire modelli di machine learning (ML) e deep learning (DL) in tempo reale, per le applicazioni che richiedono inferenze veloci e precise. Questi provider offrono un ambiente scalabile, sicuro e ottimizzato per il calcolo e la gestione dei modelli IA, permettendo alle aziende di integrare facilmente la potenza dei modelli addestrati senza doversi preoccupare della gestione delle risorse hardware o software sottostanti.

In pratica, un Inference Provider è un servizio che permette di inviare i dati a un modello pre-addestrato per generare previsioni o inferenze. Si distingue dall’addestramento vero e proprio dei modelli, che richiede una quantità significativa di risorse computazionali, ma è altrettanto critico per applicazioni che necessitano di decisioni rapide basate su dati nuovi, come nel caso di veicoli autonomi, assistenti virtuali, sistemi di raccomandazione, e molto altro.

Nvidia smentisce ma flirta con Pechino: il teatro dell’assurdo tra GPU, guerra commerciale e diplomazia di silicio

Mentre la Silicon Valley si esercita nel dribbling geopolitico, Nvidia si ritrova nel bel mezzo di un palcoscenico dove il copione è scritto tra le righe delle sanzioni americane e le ambizioni tecnologiche cinesi. Digitimes, testata taiwanese molto addentro agli ambienti dei fornitori hardware asiatici, ha acceso la miccia sostenendo che Jensen Huang starebbe preparando una joint venture sul suolo cinese per proteggere la gallina dalle uova d’oro: la piattaforma CUDA e il florido business da 17,1 miliardi di dollari maturato in Cina solo lo scorso anno.

Peccato che Nvidia abbia risposto con fuoco e fiamme, negando ogni cosa in maniera categorica. “Non c’è alcuna base per queste affermazioni”, ha dichiarato un portavoce all’indomani della pubblicazione del rumor, accusando i media di irresponsabilità per aver spacciato supposizioni come fatti.

Blackrock suona la carica: investire nell’IA è l’unica certezza nel caos globale

Gli analisti di BlackRock, con il solito aplomb da “padroni universali dei portafogli”, ci ricordano che l’unica ancora di salvezza nei marosi della volatilità geopolitica è mantenere esposizione su azioni guidate dall’intelligenza artificiale, come quelle rappresentate dal fondo NYSEARCA:AIEQ.

La dichiarazione, contenuta nel loro Spring Investment Directions Report, suona come una predica tecnocratica: “aziende altamente profittevoli e con bilanci solidi sono quelle che riusciranno a navigare in questo mare agitato”. E chi siamo noi per contraddirli? In fondo, BlackRock è quel tipo di entità che potrebbe probabilmente comprare un paese a colazione.

Nvidia e ByteDance: l’oro dei chip in fuga, e Tencent e Alibaba fanno incetta come sciacalli

Geopolitica: Nel teatrino tecnologico globale, mentre l’Occidente si accapiglia su etica dell’AI e regolamenti da salotto, in Cina si combatte una guerra ben più tangibile: quella per la potenza computazionale. La notizia arriva direttamente da Caijing: Tencent Holdings e Alibaba Group Holding hanno svuotato gli scaffali virtuali di ByteDance, comprandosi una bella fetta dei suoi preziosissimi chip grafici (GPU) Nvidia. E mica noccioline: parliamo di qualcosa che ruota attorno ai 100 miliardi di yuan, circa 13,7 miliardi di dollari americani. ByteDance, che già aveva stivato GPU come un contadino medievale nascondeva il grano prima della carestia, ora cede parte del suo tesoro per trarre profitto dalla fame altrui.

Come costruire un’intelligenza artificiale sicura nel mondo finanziario: il miraggio della compliance

Dietro consiglio di un nostro lettore Wagied DavidsWagied Davids ci siamo imbattuti su un paper interessante UNDERSTANDING AND MITIGATING RISKS OF GENERATIVE AI IN FINANCIAL SERVICES. L’ossessione per l’intelligenza artificiale generativa (GenAI) responsabile sembra oggi il nuovo passatempo preferito di Bloomberg, e non solo. Xian Teng, Sergei Yurovski, Iyanuoluwa Shode, Chirag S. Patel, Arjun Bhorkar, Naveen Thomas, John Doucette, David Rosenberg, Mark Dredze della Johns Hopkins University, e David Rabinowitz hanno firmato uno studio che sa tanto di SOS lanciato da una torre d’avorio che scricchiola. La loro tesi, pubblicata con il timbro solenne di Bloomberg, è chiara: se vogliamo sviluppare prodotti GenAI per la finanza senza farci esplodere tra le mani uno scandalo legale o regolamentare, dobbiamo smetterla di giocare ai filosofi e iniziare a sporcarci le mani con il fango della realtà normativa.

Oggi il dibattito su cosa sia una “risposta sicura” di un modello di intelligenza artificiale sembra appiattirsi su tre buzzword nauseanti: tossicità, bias e fairness. Argomenti perfetti per keynote da quattro soldi e paper peer-reviewed destinati a essere ignorati dal mercato. Secondo gli autori, però, la vera tragedia si consuma lontano dai riflettori: nei settori verticali, come la finanza, dove l’AI non può permettersi il lusso di errori estetici, ma deve rispondere a codici legali precisi, regolamenti ossessivi e standard di governance corporativa che fanno sembrare il GDPR una poesia d’amore.

Ibm ignora l’intelligenza del mercato: cresce, ma resta un pachiderma contro i jet di Microsoft e Aws

Il Q1 2025 di IBM si chiude con risultati solidi, almeno sulla carta. La divisione Software e l’area Infrastructure spingono la crescita, generando margini sani e numeri in linea con le aspettative, se non superiori. Ma basta grattare un po’ la superficie per accorgersi che il colosso di Armonk continua a ballare una lenta mentre tutto il mercato è passato al breakdance.

Microsoft: Outlook sulle prossime trimestrali, tra aspettative di crescita dell’Azure più modeste e l’opportunità di un rimbalzo a lungo termine

Microsoft si prepara a rilasciare i risultati finanziari del terzo trimestre dell’esercizio 2025 la prossima settimana, e gli analisti di Evercore ISI hanno già tracciato le loro previsioni sul futuro dell’azienda. Secondo la nota degli analisti, guidati da Kirk Materne, il gigante del software ha la possibilità di “resettare e rimanere competitivo”, ma con aspettative di crescita più contenute per Azure. Questo, come sottolineato, non è un segno di debolezza, ma una strategia per “aggiustare” le aspettative, aumentando le possibilità di una ripresa a lungo termine.

Motorola rinasce grazie ai chatbot: quando l’intelligenza artificiale diventa il nuovo cavallo di troia del mercato mobile

C’è un dettaglio quasi poetico in tutto questo: Motorola, marchio glorioso ma ormai relegato alle retrovie dell’immaginario tech collettivo, si sta ritagliando una seconda vita grazie a ciò che vent’anni fa sarebbe sembrata fantascienza. Non con un nuovo Razr pieghevole, non con una rivoluzione hardware, ma con chatbot a bordo. Il cavallo di Troia non ha più bisogno di ruote: ora ha l’avatar di un assistente AI.

La notizia della partnership tra Perplexity AI e Motorola non è solo una mossa commerciale, è il riflesso di un nuovo paradigma: i produttori di smartphone, costretti da anni a sgomitare in un mercato saturo e privo di vere innovazioni hardware, si stanno reinventando come veicoli di distribuzione per le intelligenze artificiali. E Motorola, che in questo panorama sembrava solo una nota a piè di pagina, diventa improvvisamente un asset strategico.

ServiceNow e la sua crescita travolgente nel primo trimestre 2025: intelligenza artificiale e automazione al centro della trasformazione aziendale

Nel primo trimestre del 2025, ServiceNow ha stupito gli investitori e gli analisti con risultati finanziari sorprendenti, mostrando una crescita robusta nonostante le incertezze economiche globali. L’azienda ha visto un’impennata del 15% delle sue azioni durante le prime negoziazioni di giovedì, segnalando una forte fiducia da parte degli investitori.

William McDermott, CEO di ServiceNow, ha commentato con determinazione durante la call sugli utili:

AD Detection Scrittura, cervello e IA: come un tratto di penna può svelare l’Alzheimer prima dei sintomi

Scrivere sembra l’atto più banale del mondo. Prendi una penna, appoggi la punta su un foglio e lasci che la mano faccia il resto. Eppure, dietro quel gesto così quotidiano, si cela un balletto neuronale di impressionante complessità. La scrittura attiva simultaneamente lobi frontali, aree motorie, centri del linguaggio e processi cognitivi ad alta intensità. Se qualcosa si inceppa in quel sistema, la scrittura si deforma. E da lì, ecco che il cervello inizia a raccontare una storia che nemmeno sa di star scrivendo.

È proprio questa intuizione che ha dato vita a AD Detection, un progetto con l’ambizione (seria) di intercettare l’Alzheimer prima che si manifesti. A muovere i fili sono l’Università di Cassino e del Lazio Meridionale e Seeweb, provider infrastrutturale che con GPU serverless e Kubernetes ha deciso di prestare muscoli digitali al cervello umano.

Un po’ Black Mirror, un po’ medicina del futuro.

Dedagroup acquisisce 100% Ors e lancia Deda AI

In un momento storico in cui l’intelligenza artificiale sta rapidamente passando da tecnologia emergente a motore centrale dei processi aziendali, Dedagroup completa l’acquisizione del 100% di ORS (realtà già parte del Gruppo dal 2021), segnando la nascita ufficiale di Deda AI, nuova identità e centro nevralgico dell’innovazione data-driven del gruppo trentino.

OpenAI punta a dominare il futuro: 1.000% di crescita entro il 2029 grazie agli agenti AI e abbonamenti da $50 miliardi

OpenAI, che molti vedono ancora come la startup ribelle dell’intelligenza artificiale generativa, sembra invece pronta a diventare una delle aziende più redditizie del decennio. I numeri che emergono dai documenti riservati ottenuti da The Information parlano chiaro: si prevede che i ricavi annui dell’azienda passeranno da 13 miliardi di dollari nel 2025 a 125 miliardi nel 2029. Sì, hai letto bene, quasi un +1.000% in quattro anni. Con margini lordi che dovrebbero schizzare al 70%, non stiamo più parlando di una startup, ma di una macchina da guerra che ha trovato il modo di monetizzare l’intelligenza artificiale come nessun altro.

E la chiave di questa crescita? Il solito cocktail di visione futuristica e cinismo imprenditoriale. OpenAI non si accontenta più di vendere API o abbonamenti basic al proprio ChatGPT. Sta costruendo un vero e proprio ecosistema in cui l’utente non paga solo per accedere a un modello linguistico, ma per un intero arsenale di agenti intelligenti, software autonomi capaci di svolgere compiti in autonomia, come programmare, rispondere a domande da dottorato o gestire flussi di lavoro complessi. E non sono economici: si parte da 2.000 dollari al mese e si arriva a 20.000. Un SaaS? No, questo è più simile a un consulente McKinsey alimentato da GPU.

Come difendo il monopolio: Google, Samsung, Gemini e il balletto antitrust che nessuno vuole davvero fermare

Quando sei il re indiscusso del motore di ricerca globale e ti ritrovi sul banco degli imputati per monopolio illegale, non combatti per la tua innocenza, combatti per mantenere il potere il più possibile intatto. Questa settimana, il processo antitrust contro Google si è trasformato in un teatrino squisitamente illuminante su come funziona davvero il capitalismo delle Big Tech. E no, non è un complotto: è tutto documentato, verbalizzato e testimoniato davanti a un giudice federale.

Peter Fitzgerald, vice-presidente delle partnership di Google, ha confermato davanti al tribunale che da gennaio Google paga Samsung una cifra mensile definita “enorme” per preinstallare l’app Gemini AI su tutti i dispositivi Samsung di nuova generazione, come se fosse il nuovo Bixby, ma con molta meno personalità e molti più dati da succhiare. E no, non è uno scherzo. La stessa Samsung, che da anni tenta di affermare il proprio assistente vocale, ha sostanzialmente gettato la spugna per un assegno a sei (forse sette) zeri.

Grafene, la rivoluzione invisibile che potrebbe asfaltare il silicio: CamGraPhIC

Quando la NATO smette di finanziare droni, missili e tecnologia a base di metallo e punta milioni su un materiale ultrasottile come il grafene, forse vale la pena alzare le antenne. Non quelle classiche, magari proprio quelle nuove, basate su ricetrasmettitori privi di silicio, sviluppati da una piccola ma ambiziosissima startup italiana: CamGraPhIC .

Quando i miliardari annusano il disastro e vendono prima di tutti

C’è un odore inconfondibile che precede il crollo in Borsa. Non è il sudore della paura, né l’acre aroma del panico generalizzato. L’invisibile profumo del privilegio informato, quello che solo chi siede nei piani alti riesce a sentire con giorni, se non settimane, d’anticipo. L’ultimo esempio?

La valanga di vendite azionarie effettuate da alcuni top executive proprio alla vigilia dell’annuncio dei dazi USA voluti da Donald Trump. Vendite che, guarda caso, hanno evitato perdite milionarie. Bloomberg, come un segugio da dati, ha ricostruito passo dopo passo chi si è mosso e quando.Partiamo dalla finestra temporale, quel lasso di tempo sospetto in cui diversi big hanno deciso di vendere quote significative delle proprie aziende, giusto prima che Wall Street si sgonfiasse come un pallone bucato.

Fuori dagli Stati Uniti, dentro l’incognita: il grande esodo del private equity cinese e non solo. La Cina chiude gli investimenti nei fondi di private equity Usa

Un caffè al Bar dei Daini.

La geopolitica è tornata con gli stivali chiodati a calpestare i campi minati della finanza globale. Pechino chiude i rubinetti agli investimenti nei fondi di private equity americani, e l’Europa comincia a strofinarsi gli occhi, cercando una via d’uscita più elegante di quella canadese, che ha già la valigia pronta.

Non è solo una ritirata: è un cambio di paradigma, una mutazione strutturale del flusso di capitali che ha drogato Wall Street per due decenni. A fare la bella vita a debito, denaro facile, sono capaci tutti, specialmente noi occidentali, ma i Cinesi sono abituati ad aspettare il momento invece.

Dalle notizie emerse, il China Investment Corporation (CIC), colosso da oltre mille miliardi, ha iniziato a sfilarsi dalle operazioni americane, bloccando nuovi investimenti e chiedendo di non partecipare nemmeno a operazioni con veicoli terzi che abbiano aziende statunitensi nel mirino.

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