La scena è questa: settantamila candidati nelle Filippine, un processo di selezione per customer service reps, e due attori in campo. Da un lato i recruiter umani, con le loro abitudini, i bias inconsci e quella presunta capacità di leggere tra le righe. Dall’altro un’intelligenza artificiale vocale, costruita su un LLM che non conosce stanchezza, non giudica dal tono di voce e non si distrae. Risultato? Dodici per cento in più di offerte, diciotto per cento in più di assunzioni effettive e un retention rate a un mese superiore del diciassette per cento. La voice AI nelle risorse umane non è più un esperimento futuristico, ma un dato di fatto. E se qualcuno nelle direzioni HR continua a pensare che “le persone sono insostituibili”, probabilmente dovrà aggiornare il proprio vocabolario di leadership.
Categoria: Lavoro
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L’impatto dell’intelligenza artificiale generativa sulla natura del lavoro: evidenze da GitHub Copilot
L’Intelligenza Artificiale Generativa non è più un esperimento da laboratorio per nerd visionari, ma sta iniziando a ridisegnare i confini del lavoro stesso. GitHub Copilot diventa qui il caso di studio perfetto, perché permette di osservare in tempo reale come un assistente IA possa spostare l’attenzione dei programmatori dai compiti gestionali al vero cuore della loro professione: scrivere codice. Non è fantascienza, è misurabile, con numeri concreti su oltre 187.000 sviluppatori seguiti per due anni.

Quando nel mondo tech americano si parlava della cultura lavorativa cinese 9-9-6, lo si faceva con un misto di sconcerto e disprezzo velato. Lavorare dalle 9 alle 21, sei giorni su sette? Una barbarie made in Shenzhen, roba da fabbriche digitali dove il capitale umano è sacrificabile quanto un vecchio server. Ma adesso, nella Silicon Valley dopata dall’intelligenza artificiale, quel modello inizia a sembrare quasi rilassato. Il nuovo mantra? Zero-zero-sette. Non James Bond, ma zero ore, sette giorni: il ciclo completo della nuova mistica del lavoro AI, dove l’unica pausa concessa è il sonno REM tra due sprint di deployment.
La parabola più grottesca viene da Cognition, startup americana specializzata in generazione di codice. Un nome che fa pensare all’intelligenza, alla riflessione, magari all’etica. Nulla di tutto questo. Dopo l’acquisizione del rivale Windsurf, il CEO Scott Wu ha inviato un’email interna che potrebbe essere letta come una dichiarazione di guerra alla vita stessa. Ottanta ore a settimana, sei giorni in ufficio, il settimo a fare call tra colleghi. Nessuna “work-life balance”. Quella, evidentemente, è roba da boomer. “Siamo gli sfavoriti”, scrive Wu, con un tono che pare uscito da una fan fiction distopica in cui Elon Musk guida una setta. I nuovi dipendenti? Dovranno adattarsi o uscire dalla porta sul retro.
Cosa spinge questi moderni monaci digitali a rinunciare a tutto per un cluster di GPU e una valuation ipotetica? Il denaro, certo, ma non solo. La religione dell’hypergrowth ha le sue liturgie, e dormire in ufficio sembra essere diventata una di esse. Una foto su Slack alle 2 del mattino davanti a una dashboard di metrics, una cena consumata su una sedia ergonomica mentre si aggiorna un modello linguistico, sono oggi il corrispettivo delle cicatrici di guerra. Sarah Guo, investitrice in Cognition, lo dice chiaramente: “If this offends you, ngmi” ovvero “se questo ti offende, non ce la farai”. Una frase che suona come un verdetto darwiniano più che un consiglio.
Nel frattempo, startup come Mercor (assunzioni AI) e Anysphere (assistenti di codifica) non si nascondono: anche lì si lavora sette giorni su sette. Nessuna eccezione, nessuna domenica. L’obiettivo è diventare the next big thing e per farlo bisogna spezzarsi, insieme ai propri team. Masha Bucher, fondatrice del fondo Day One Ventures, ci mette il carico da novanta: “Se un founder non è in ufficio almeno un giorno nel weekend, allora sì che mi preoccuperei”. A quanto pare, anche il sabato di ricarica è una debolezza da eliminare.
La trasformazione è tanto inquietante quanto indicativa. Queste non sono startup che rincorrono la produttività. Sono culti tecnologici travestiti da aziende, dove il capitale umano è trattato come un modello di machine learning: più lo alleni, più performa, finché collassa. Il linguaggio è quello del sacrificio eroico, della resistenza estrema, dell’urgenza messianica. In fondo, “lavorare 80 ore a settimana per costruire il futuro” suona meno bene se lo chiami semplicemente sfruttamento.
Ma dietro tutto questo c’è una verità più scomoda. I fondatori e gli investitori stanno orchestrando una narrazione in cui la fatica disumana diventa un badge of honor, un segno distintivo che fa lievitare le valutazioni come una buona metrica di retention. Cognition è vicina a una nuova raccolta fondi che potrebbe raddoppiarne la valutazione a 10 miliardi. Vuoi attrarre i capitali nel 2025? Mostra quanto sei “hardcore”, quanto riesci a spingere il tuo team sull’orlo del burnout. E magari fagli anche sorridere per la foto su Forbes.
Tutto questo si inserisce in un contesto globale dove l’intelligenza artificiale sta diventando il nuovo petrolio, e la corsa all’oro impone ritmi da rivoluzione industriale 4.0. Solo che, questa volta, non ci sono le tute blu. Ci sono PhD del MIT e ex-Googler, tutti consapevoli, tutti volontari. O forse no? Perché dietro ogni CV brillante, c’è un’illusione silenziosa: quella che il prossimo modello generativo possa davvero cambiare il mondo. Che il codice che stai scrivendo a mezzanotte sia quello che farà la differenza tra anonimato e IPO.
Ma mentre l’élite tecnologica americana gioca a fare gli Shaolin della programmazione, la domanda vera è un’altra. Dove si colloca il limite? Non quello legale o medico, ma quello culturale. Quando una società decide che lavorare sette giorni su sette è il prezzo giusto da pagare per essere competitivi, non è più una questione di work ethic. È un collasso valoriale. Una discesa lenta e scintillante verso una distopia patinata in cui l’uomo è solo un bottleneck biologico da spremere finché l’AGI non sarà pronta a rimpiazzarlo.
Per ora ci restano le ironie. Tipo quella che i fondatori più hardcore predicano il 007, ma poi usano modelli AI addestrati per rendere il lavoro… più efficiente. L’ipocrisia si taglia con un prompt. “Automatizziamo tutto, ma voi continuate a lavorare il doppio”, sembra essere la sintesi perfetta. E sì, forse le teste rasate o le tende da campeggio sotto le scrivanie saranno davvero i nuovi simboli di status nella Silicon Valley AI. O magari lo sono già. Ma se lavorare 16 ore al giorno per mesi diventa l’unico modo per “farcela”, allora chi ce la fa davvero? E a quale prezzo?
Nel frattempo, i venture capitalist osservano compiaciuti, alzano le offerte e stringono le mani sudate di chi ha dormito due ore su un beanbag. L’era post-umana non è iniziata con un’intelligenza artificiale cosciente. È iniziata con una generazione di umani che ha deciso di comportarsi come macchine.
Il sorpasso non è ancora avvenuto, ma il rumore di fondo è inconfondibile: le donne stanno riscrivendo le regole del lavoro ad alto reddito negli Stati Uniti, e lo stanno facendo con una determinazione che trasuda più strategia che semplice emancipazione. Nel 2023, secondo l’analisi del Pew Research Center, il 46% dei manager americani era donna. Un numero che, messo così, sembra quasi scontato, ma che racconta un’evoluzione feroce se confrontato con il misero 29% del 1980. Restano un soffio sotto il 49% della forza lavoro complessiva femminile, ma la vera notizia è dove stanno puntando lo sguardo: i piani alti, quelli che contano e che pagano.


È un paradosso scomodo quello che emerge dal recente memo di Satya Nadella. Licenziare migliaia di persone mentre la capitalizzazione vola e i margini brillano è il genere di contraddizione che fa storcere il naso anche agli investitori più cinici. Microsoft è, per usare le parole dello stesso CEO, “in crescita su tutti i fronti, con performance di mercato e posizionamento strategico che puntano verso l’alto”. Eppure, i licenziamenti Microsoft non sono un incidente marginale. Sono il segnale di un capitalismo tecnologico che non perdona la lentezza, neppure quando i numeri raccontano una storia trionfale.

È come se qualcuno avesse scoperchiato la pentola e la cupola tecnologica si stesse liquefacendo: Microsoft ha analizzato circa 200 000 interazioni reali tra utenti e Copilot su Bing, scoprendo i lavori con le attività più compatibili e quelli decisamente immuni – all’avvento dell’intelligenza artificiale. Vediamo i dettagli, senza indugi né retorica da rapporto annuale.
Il cuore del cambiamento è chiarissimo: se nel tuo lavoro scrivi, traduci, analizzi o consigli via documenti, email, chat, allora l’impiego generativo ti sta già tagliando i compiti. Interpreti, traduttori, storici, autori, giornalisti, addetti alle PR e redattori si trovano in cima alla lista dei lavori più colpiti dall’AI, con punte di compatibilità con AI nel 98 % dei casi per interpreti e traduttori. Voilà, l’AI non chiede permesso: entra, fa il caffè, ottimizza i testi, riscrive giornali, spia gli stili e li migliora a colpi di prompt. Non sei sostituito, ma i tuoi compiti vengono scomposti in micro-tasks e regalati al bot, che li esegue a velocità supersonica.

In un’epoca in cui tutto sembra cambiare a velocità vertiginosa, la relazione tra intelligenza artificiale (AI) e lavoro umano si impone come uno degli argomenti più cruciali, se non il più essenziale. Siamo di fronte a un cambiamento epocale che tocca non solo gli aspetti economici e sociali, ma anche la nostra stessa identità, profondamente intrecciata con la nostra professione. Se i lavori svaniscono, con essi rischia di scomparire anche il nostro senso di autostima.

Measuring the Impact of Early-2025 AI on Experienced Open-Source Developer Productivity
Hmmm, sì, la grande illusione collettiva dell’intelligenza artificiale generativa sta cominciando a mostrare le crepe, e non è una bella scena. La narrazione scintillante che ci è stata servita a colpi di conferenze e report patinati sta franando sotto il peso di una realtà imbarazzante. Gli stessi programmatori che, con l’aria di sacerdoti del nuovo culto, giuravano di essere diventati dei semidei grazie agli strumenti AI, hanno appena ricevuto un sonoro schiaffo. METR, un laboratorio di ricerca poco incline alla retorica da keynote, ha pubblicato un trial randomizzato che ha fatto saltare le maschere: gli sviluppatori erano convinti di essere il 20 per cento più veloci usando AI, ma in realtà erano il 19 per cento più lenti. Non stiamo parlando di dilettanti allo sbaraglio, ma di professionisti esperti. La cosa più inquietante? Continuavano a giurare che stavano volando, quando in realtà arrancavano nel fango digitale. Autoconvincimento puro, un’ipnosi collettiva degna di un illusionista da palcoscenico.

America, la terra promessa delle startup, ora si mette a insegnare ai suoi insegnanti come non farsi surclassare dall’intelligenza artificiale. Immaginate quasi mezzo milione di docenti K–12, cioè scuole elementari e medie, trasformati da semplici dispensatori di nozioni a veri e propri coach del futuro digitale grazie a una sinergia che sembra uscita da una sceneggiatura hollywoodiana: il più grande sindacato americano degli insegnanti alleato con i colossi OpenAI, Microsoft e Anthropic. Una nuova accademia, la National Academy for AI Instruction, basata nella metropoli che non dorme mai, New York City, promette di rivoluzionare il modo in cui l’intelligenza artificiale entra in classe. Non più spettatori passivi ma protagonisti attivi in un’epoca che sembra dettare legge anche tra i banchi di scuola.

C’è un dettaglio che sfugge a molti quando si parla di large language models, quei sistemi apparentemente addestrati per generare testo umano, rispondere a domande, scrivere codice o produrre email che sembrano uscite dalle dita di un impiegato mediocre. Il punto è che questi modelli non stanno semplicemente migliorando: stanno accelerando. In modo esponenziale. E come sempre accade con l’esponenziale, la mente umana tende a fraintenderlo fino a quando è troppo tardi per rimediare. Secondo una ricerca condotta da METR (Model Evaluation & Threat Research), i LLM raddoppiano la loro capacità ogni sette mesi. Non è una proiezione teorica: è una misurazione empirica su task complessi e di lunga durata. Un LLM oggi fatica a risolvere problemi “disordinati” del mondo reale, ma tra cinque anni potrebbe completare in poche ore un progetto software che oggi richiede a un team umano un mese intero. Quarantacinque giorni in otto ore. E nessuno sembra preoccuparsene davvero.

Se pensate che la guerra per l’intelligenza artificiale si giochi solo sulle capacità dei modelli e sulla potenza dei data center, vi sbagliate di grosso. Dietro ogni algoritmo all’avanguardia c’è una partita ben più umana, meno visibile ma molto più decisiva: la battaglia per il talento. E in questa sfida, le mosse di Meta contro OpenAI raccontano una storia che va ben oltre i numeri o le dichiarazioni di facciata.
Meta ha appena fatto un colpo grosso, strappando almeno otto ricercatori di punta da OpenAI con offerte stratosferiche da 100 milioni di dollari. Non si tratta di un semplice scambio di dipendenti, ma di un vero e proprio esodo di menti preziose che scuote le fondamenta della più famosa startup dell’intelligenza artificiale. In gioco non c’è solo la supremazia tecnologica, ma la sopravvivenza stessa delle culture organizzative di due giganti che stanno scrivendo il futuro del mondo digitale.

Il mercato del lavoro statunitense ha mostrato una resilienza inaspettata a giugno, con l’aggiunta di 147.000 posti di lavoro, superando le previsioni degli economisti che indicavano un incremento di 110.000 unità. Il tasso di disoccupazione è sceso al 4,1%, il livello più basso da febbraio 2025. Tuttavia, sotto la superficie di questi numeri positivi, emergono segnali di rallentamento, soprattutto nel settore privato, dove la crescita dell’occupazione è stata limitata a 74.000 nuovi posti, il dato più basso da ottobre 2024. Questo rallentamento è particolarmente evidente nei settori della manifattura e dei servizi professionali e aziendali, dove l’occupazione è rimasta pressoché stabile o in calo.
Un altro aspetto preoccupante riguarda la partecipazione al mercato del lavoro, che ha visto una diminuzione tra i lavoratori nati all’estero, probabilmente a causa delle politiche migratorie più restrittive adottate dall’amministrazione Trump. Questo calo potrebbe influenzare la disponibilità di manodopera in alcuni settori e avere implicazioni a lungo termine per la crescita economica.

Benvenuti nella nuova economia dell’assurdo, dove l’unico posto sicuro è nel cuore di un modello neurale da 175 miliardi di parametri. Dimenticate le vecchie distinzioni tra senior e junior, tra chi sa programmare in COBOL e chi compila in Rust. Il settore tecnologico non sta solo evolvendo: si sta biforcando come una linea temporale in una distopia quantistica. Da una parte, gli specialisti di intelligenza artificiale vivono un’epoca d’oro fatta di stock option, stipendi da hedge fund e benefit da rockstar della Silicon Valley. Dall’altra, l’esercito di knowledge worker “non IA” scopre di essere diventato ridondante, inutile, o peggio: ottimizzabile.
Microsoft è solo l’ultimo esempio in ordine di tempo. Tagliare 9.000 dipendenti con la stessa disinvoltura con cui si aggiorna un software legacy non è solo una questione di conti economici: è un segnale inequivocabile che la scala delle big tech non è più umana, ma computazionale. Dopo i 6.000 licenziamenti di aprile, ecco il bis di luglio. Nessuna sorpresa che l’annuncio sia accompagnato da un consiglio illuminato: “usate l’IA per aumentare la produttività”. Tradotto in aziendalese puro: fatevi sostituire meglio. In parallelo, TikTok taglia nel suo team di fiducia e sicurezza, perché a quanto pare l’etica e la moderazione si possono ormai esternalizzare… a un algoritmo.

C’era una volta un gigante del software che vendeva Word e PowerPoint come pane fresco. Oggi quello stesso gigante sta bruciando miliardi in silicio e reti neurali, mentre licenzia migliaia di venditori in carne e ossa. Microsoft, signore e padrone del cloud, si prepara a sfoltire nuovamente la sua forza lavoro. Questa volta nel mirino non ci sono gli ingegneri o i product manager, ma gli umani che parlano con altri umani: i venditori.
Interessante Analisi da Stanford (SALT).
La Silicon Valley ha parlato, e come spesso accade, nessuno ha chiesto agli interessati. Mentre i capitali si riversano a miliardi su “agenti AI” pronti a rimpiazzare, affiancare, o semplicemente disturbare oltre 70 milioni di lavoratori statunitensi, una domanda cruciale resta inascoltata: cosa vogliono davvero le persone che questi sistemi dovrebbero aiutare?

Per rispondere, un team di ricercatori (con il supporto del Stanford Digital Economy Lab) ha fatto qualcosa di raro nel mondo tech: ha chiesto direttamente ai lavoratori. Il risultato è un’indagine monumentale, chiamata WORKBank, che combina l’intelligenza artificiale con una cosa che l’AI fatica ancora a replicare: l’esperienza sul campo.

Ai ridisegna la catena del valore: meno PowerPoint, più Prompt
Marc Benioff ha fatto il primo passo con nonchalance, lanciando la bomba in un podcast: forse quest’anno non assumeremo nuovi ingegneri, grazie ai guadagni incredibili di produttività ottenuti con l’AI. L’ha detto quasi tra una risata e un sorso d’acqua minerale, come se fosse un dettaglio da nulla. Poi è arrivato Andy Jassy, CEO di Amazon, e ha fatto quello che da tempo tutti nel settore sapevano sarebbe successo, ma nessuno voleva essere il primo a dire ad alta voce: l’intelligenza artificiale non è solo una rivoluzione tecnologica, è anche e soprattutto una rivoluzione occupazionale. E inizia dentro casa.

Nel mezzo del delirio pandemico, quando ogni gesto umano veniva tradotto in bit e latenza, le Big Tech sembravano immortali. Investivano, assumevano, promettevano benefit da resort di lusso e leadership empatica come fosse un TED Talk permanente. Un trip digitale finanziato dalla paura globale e dal credito a tasso zero. Poi è finito tutto. Benvenuti nel COVID tech bust.
Sì, si sono tagliati i capelli, le unghie e adesso anche i dipendenti. Non è cinismo, è logica ciclica. Per ogni fase di euforia irrazionale, segue una contrazione spietata. E il 2025 sta diventando un triste catalogo mensile di licenziamenti, un elenco da bollettino di guerra hi-tech. Altro che “Great Resignation”, qui siamo nella “Great Recalibration”. Perché la pandemia ha solo anticipato quello che il mercato stava già preparando: una resa dei conti con l’iper-crescita.

Quando George Kurtz, CEO di CrowdStrike, ha dichiarato che “l’IA appiattisce la nostra curva di assunzione”, non stava solo illustrando una strategia aziendale, ma delineando una nuova era in cui l’intelligenza artificiale ridefinisce le dinamiche occupazionali nel settore tecnologico. Con l’annuncio del licenziamento del 5% della forza lavoro—circa 500 dipendenti—l’azienda ha evidenziato come l’efficienza operativa guidata dall’IA stia diventando una giustificazione prevalente per la riduzione del personale.

La guerra al lavoro noioso e agli annunci sbagliati è ufficialmente aperta. LinkedIn ha appena tirato fuori dal cilindro una nuova funzione di ricerca basata sull’intelligenza artificiale generativa, che sembra voler rottamare i vecchi filtri da database anni ’90: niente più selezioni multiple su ruolo, città, settore, ma frasi naturali come “voglio un lavoro da brand manager nel fashion, ma entry level” oppure “analista appassionato di sostenibilità cercasi nuove sfide”.
Barack Obama, uno che sa ancora parlare come un Presidente e non come un algoritmo PR di Wall Street, ha sganciato la bomba durante un’intervista al Hamilton College. Nessuna diplomazia da manuale: “Un sacco di lavori spariranno”. Testuali parole. Ma non è solo un’espressione di preoccupazione post-presidenziale. È un monito reale, puntuale, persino disperato. L’Intelligenza Artificiale e non quella dei meme su ChatGPT che risponde educatamente ma quella che già sta fagocitando ruoli interi in aziende globali, è sul punto di mandare a casa milioni di persone. E non ci sarà cassa integrazione che tenga.

Nel silenzio rotto solo dal suono dei tasti e dai grafici di produttività, un nuovo paradigma si consolida nel cuore pulsante della corporate economy globale: l’intelligenza artificiale non è più una tecnologia da laboratorio, è una manodopera da trincea. E soprattutto, è una manodopera che non sciopera, non chiede ferie, non si ammala e non organizza sindacati. Da PayPal a EY, passando per Meta, Pinterest e l’intera Silicon Valley, si assiste a una mutazione darwiniana dove il lavoratore umano è una specie in via d’estinzione, rimpiazzata da algoritmi affamati di dati e GPU a 5 cifre.

L’intelligenza artificiale rappresenta una delle più grandi opportunità – e sfide – per l’Europa nei prossimi decenni. A sottolinearlo è Christine Lagarde, presidente della Banca Centrale Europea (BCE), in un discorso pronunciato durante una conferenza sull’AI organizzata dalla BCE. Con un tono pragmatico ma determinato, Lagarde ha delineato un futuro in cui l’Europa non può permettersi di restare indietro, come accaduto con la rivoluzione digitale di Internet, evidenziando i profondi cambiamenti che l’intelligenza artificiale porterà in termini di produttività, lavoro e disuguaglianze sociali.

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Il Rapporto sul Futuro del Lavoro 2025, pubblicato dal World Economic Forum, offre una visione approfondita delle trasformazioni previste nel mercato del lavoro globale nei prossimi anni. Questo documento analizza come le tendenze macroeconomiche, tecnologiche e sociali influenzeranno l’occupazione e le competenze necessarie per affrontare le sfide future.

L’anno appena iniziato è il momento ideale per dare un primo sguardo alle sfide e alle opportunità che il mondo dell’HR sarà chiamato ad affrontare per gestire al meglio i collaboratori all’interno delle organizzazioni. Le previsioni per il 2025 delineano un panorama in cui le risorse umane e la formazione sarà sempre più influenzato dall’adozione di tecnologie avanzate e dalla crescente attenzione al benessere dei dipendenti. Secondo GoodHabitz, le aziende dovranno focalizzarsi su 6 tendenze chiave per rimanere competitive e promuovere un ambiente di lavoro positivo e produttivo, incoraggiando lo sviluppo personale e professionale dei dipendenti. Vediamole nel dettaglio.

Nel 2025, il mercato del lavoro nel settore IT e dell’Intelligenza Artificiale sarà caratterizzato da un’evoluzione rapida e continua. La crescente domanda di innovazione tecnologica e la necessità di rimanere competitivi spingeranno le aziende a cercare professionisti con competenze avanzate in vari linguaggi di programmazione. L’automazione, l’analisi dei dati, l’Internet of Things (IoT) e la cybersecurity saranno al centro delle strategie aziendali, richiedendo esperti in grado di sviluppare, implementare e mantenere soluzioni tecnologiche avanzate. In questo scenario, la capacità di adattarsi ai nuovi strumenti e tecnologie sarà essenziale per mantenere una carriera di successo.

L’Intelligenza Artificiale continuerà a dominare il panorama tecnologico anche nel 2025. L’espansione della sua adozione in settori come i servizi finanziari, la sanità, la produzione e la vendita al dettaglio sta alimentando una crescente domanda di professionisti in grado di combinare competenze tecniche specifiche con una profonda conoscenza dei vari settori industriali. Questo perché la capacità di integrare l’Intelligenza Artificiale nelle operazioni aziendali sarà un fattore determinante di successo nel prossimo anno.

A partire da oggi, 18 dicembre, la piattaforma SIISL, il Sistema Informativo per l’Inclusione Sociale e Lavorativa, inizialmente limitata ai beneficiari del Supporto per la formazione e il lavoro e dell’Assegno sociale e successivamente estesa da fine novembre ai percettori dell’indennità di disoccupazione, sarà aperta a tutti. Si tratta di un ufficio del lavoro virtuale, creato per far incontrare domanda e offerta di lavoro.

Il potenziale che le aziende possono raggiungere grazie a GenAI è praticamente illimitato, limitato solo dalla propria ambizione. Con il giusto impegno, l’Intelligenza Artificiale (AI) ha il potenziale di cambiare non solo il modo in cui le aziende creano nuovi prodotti, ma anche di trasformare modelli di business, mercati e persino la società stessa. Le lezioni apprese durante questo processo sono preziose per ogni CEO che desideri navigare con successo la nuova era dell’innovazione radicale.

Promuovere il benessere finanziario dei dipendenti e garantire la trasparenza retributiva sono due delle maggiori sfide che le aziende italiane devono affrontare oggi. Secondo un’indagine condotta da SD Worx, il 39% delle imprese italiane considera prioritario evitare lo stress finanziario dei dipendenti, mentre il 34% ritiene cruciale migliorare la trasparenza retributiva. In questo contesto, l’Intelligenza Artificiale può giocare un ruolo fondamentale nell’aiutare le aziende a raggiungere questi obiettivi, migliorando la trasparenza e favorendo la retention dei talenti, senza trascurare le problematiche legate alla privacy.

L’introduzione degli avatar AI nel mondo delle risorse umane sta rapidamente trasformando la modalità con cui le aziende selezionano e valutano i candidati. Secondo un recente studio condotto da Tidio, un’azienda specializzata in software per il servizio clienti, l’85% dei recruiter considera l’intelligenza artificiale come uno strumento utile per sostituire alcune fasi del processo di assunzione. Tuttavia, con il crescente utilizzo di questi avatar digitali, emergono anche nuovi interrogativi sulla reale efficacia dell’AI nel prevedere il potenziale dei candidati e sull’integrità del processo di assunzione.

Il tema della scelta tra intelligenza artificiale aperta e chiusa è di particolare rilevanza per le aziende che desiderano integrare l’IA nelle proprie operazioni, e tuttavia la risposta alla domanda su quale approccio sia “migliore” è tutto tranne che universale. Come molte scelte tecnologiche, la preferenza tra un sistema di IA open-source o uno proprietario dipende in modo determinante dal contesto aziendale, dagli obiettivi strategici e dalle risorse a disposizione.

Si è tenuta nei giorni scorsi a Roma la tavola rotonda – organizzata dalla Prof.ssa Tiziana Catarci e coordinata dalla Dott.ssa Daniela Carla’, con il supporto di SIpEIA e Noi Rete Donne – in occasione della quale si è discusso di come l’Intelligenza Artificiale influisca sul lavoro delle donne. In occasione dell’evento, che si è svolto nell’Aula Magna del Dipartimento di Ingegneria Informatica, Automatica e Gestionale Antonio Ruberti, si sono poi analizzati i rischi e le opportunità dell’AI nel mercato del lavoro.

Entro il 2030 l’Intelligenza Artificiale trasformerà l’80% delle professioni e il combinato disposto della transizione green porterà, in parallelo, 30 milioni di posti di lavoro in più. Lo scenario che si delinea è quello di un futuro prossimo caratterizzato da un gap di competenze in un contesto in cui cinque generazioni lavoreranno insieme con esigenze e obiettivi diversi.
Su queste tematiche e sulle sfide correlate nel mondo del lavoro si confronteranno il prossimo 30 maggio a Milano i protagonisti della prima Annual Conference di ManpowerGroup Italia dal titolo ‘The Exchange – Disegniamo insieme il futuro del lavoro‘.

Dalla conoscenza dei trend di mercato tramite analisi predittive, al decision making e all’automazione di attività e di processi di routine, fino ai servizi alle persone e all’ottimizzazione delle risorse: sono solo alcuni degli ambiti in cui
Ormai è noto come l’Intelligenza Artificiale possa trasformare i modelli di business delle imprese, dall’automazione delle attività e dei processi all’analisi predittiva, dai servizi alle persone all’ottimizzazione nella gestione delle risorse e molto altro ancora.

È ferma al 16% da dieci anni la presenza femminile nelle aziende del settore Ict in Italia, appena al di sotto della peraltro non invidiabile media europea del 17-18%. In un’epoca di transizione digitale e in un settore sempre più dinamico e attrattivo anche dal punto di vista delle retribuzioni le donne non riescono a sfondare la porta nelle aziende informatiche.