Nel silenzioso fermento delle aule federali, si sta giocando una partita che potrebbe riscrivere le fondamenta della ricerca online. A luglio scorso, OpenAI ha bussato alla porta di Google con una richiesta non proprio modesta: accedere al suo motore di ricerca per alimentare un progetto chiamato SearchGPT, ovvero un ibrido tra motore AI e indicizzazione in tempo reale. Una mossa tanto audace quanto rivelatrice delle ambizioni di OpenAI nel diventare la piattaforma da cui passa la conoscenza digitale del futuro.
La risposta di Google? Un secco “no”, datato 13 agosto. Una data che non cade a caso: pochi giorni prima, un giudice federale aveva ufficialmente sancito che Google detiene un monopolio illegale nel mercato delle ricerche online. Curioso tempismo, verrebbe da dire. Ma la storia, come sempre, si complica.
Il Dipartimento di Giustizia americano ha infatti messo sul piatto un’ipotesi che sa di detonatore per l’intero settore: costringere Google a rendere disponibile il proprio motore a terzi, in tempo reale, insieme a dati sensibili come click, query e soprattutto l’indice di ricerca. In pratica, aprire la cassaforte di Mountain View per innescare concorrenza vera. Uno scenario che, fino a qualche anno fa, sarebbe stato considerato puro fantascientifico.

Nick Turley, il dirigente OpenAI che supervisiona SearchGPT all’interno di ChatGPT, ha testimoniato martedì davanti al giudice Amit Mehta. Il messaggio è chiaro: se potessimo usare i dati di Google, in cinque anni saremmo in grado di gestire il 100% delle ricerche autonomamente. Ma ha anche ammesso, con onestà quasi disarmante, che sottovalutare la complessità di costruire un indice di ricerca è stato un errore reiterato. Perché una cosa è generare risposte con un LLM, un’altra è costruire, indicizzare e interrogare in tempo reale tutto il web con coerenza e affidabilità.

Il giudice Mehta, dal canto suo, ha già lasciato intendere una certa simpatia verso l’idea di obbligare Google alla condivisione dei propri dati, ponendosi una domanda sibillina ma centrale: quanto tempo sarebbe necessario per ristabilire una vera concorrenza?
E mentre da un lato si cerca di limitare il dominio di Google sulla conoscenza globale, dall’altro il colosso di Mountain View ci tiene a ricordarci chi comanda davvero.
Nello stesso giorno in cui in aula si parlava di aprire il suo motore ad altri, Google ha annunciato di voler tenere i cookie in vita su Chrome. Avete letto bene: dopo cinque anni di promesse sulla privacy, dopo aver creato un’intera divisione (Privacy Sandbox) per trovare alternative che non tracciassero gli utenti, Google ha deciso di lasciarli dove sono.
L’aveva già accennato l’estate scorsa, ma ora è ufficiale: niente prompt per chiedere il consenso, solo un generico “sei libero di cambiare le impostazioni”. E intanto Firefox e Safari hanno eliminato i cookie da anni. Un bel vantaggio competitivo se sei nel business della pubblicità, meno se sei un utente che tiene alla privacy.
La cosa grottesca è che proprio la divisione che avrebbe dovuto guidare questa transizione, la Privacy Sandbox, è stata decimata da licenziamenti interni poche settimane fa. E ora Google si limita a dire che quella squadra “potrebbe avere un ruolo diverso nell’ecosistema”. Una frase che puzza di epitaffio aziendale.
Ecco quindi lo scenario: da una parte, un’AI che vuole divorare il search per renderlo conversazionale e probabilistico; dall’altra, un dinosauro capitalista che pur sotto processo continua a monetizzare ogni click, ogni indirizzo IP, ogni briciola di attenzione digitale. E in mezzo, noi utenti, sempre più spettatori inermi di un duello tra monopoli, dove la privacy è solo una keyword da SEO.