Se pensate che il vostro “pubblico” su Facebook e Instagram sia davvero sotto il vostro controllo, vi conviene rivedere la percezione della parola “privacy”. Meta, l’azienda che guida il social game, ha appena piazzato un ultimatum che farebbe impallidire anche i più spietati colossi tecnologici: da domani potrà utilizzare legalmente TUTTI i dati pubblici degli utenti – foto, post, like, commenti, storie – per addestrare la sua intelligenza artificiale. Sì, avete capito bene, senza chiedervi un bel niente.

La meccanica è subdola, ma geniale nella sua brutalità. Il consenso non è più un’opzione, è un silenzio assenso. Se non vi attivate entro la scadenza – un modulo nascosto, complicato da trovare, pensato apposta per scoraggiare – state di fatto autorizzando Meta a saccheggiare la vostra vita digitale per alimentare il suo mostro di machine learning. E la ciliegina avvelenata? Se qualcun altro ha postato una vostra foto o vi ha taggati pubblicamente, Meta può usarla comunque, perché quel contenuto “formalmente non è vostro”. La definizione di “proprietà” digitale prende così una piega inquietante, un territorio di nessuno dove i diritti individuali si perdono in un labirinto burocratico che solo i colossi della tecnologia sanno navigare.

Questa mossa non è un incidente di percorso o una svista etica, è la fotografia di un sistema che sta costruendo una gigantesca banca dati, un gigantesco cervello elettronico basato su quello che una volta era il nostro “pubblico”. Meta punta a trasformare il patrimonio sociale di miliardi di utenti in carburante per le sue AI, sfruttando la nostra ignoranza e la nostra inerzia. Perché nella fretta, nel rumore quotidiano dei feed e delle notifiche, è facile non accorgersi che si sta cedendo qualcosa di molto più prezioso di un semplice “like”.

Il rischio? Un futuro in cui il controllo dei dati personali sarà una chimera, e la percezione del “pubblico” diventerà sinonimo di “proprietà di qualcun altro”. Non c’è bisogno di fantascienza per immaginare scenari in cui le intelligenze artificiali si allenano su volti, espressioni, conversazioni estrapolate senza consenso da social network, alimentando profili predittivi, modelli comportamentali, e strumenti di manipolazione su scala industriale.

Ma ecco la provocazione: non è solo un problema di privacy, è un problema di potere. Di chi detiene le chiavi del mondo digitale e di chi, invece, è costretto a girare intorno senza sapere esattamente a quali condizioni. Le grandi piattaforme hanno trasformato la partecipazione sociale in una merce, e l’addestramento delle AI è solo l’ultimo capitolo di questo racconto.

“Il silenzio è un sì” non è una frase vuota, è la sintesi perfetta di una strategia che punta a normalizzare la svendita dei nostri dati, giocando sulla pigrizia e sul disinteresse. Per una volta, l’azione diventa un atto di resistenza, perché restare immobili significa consegnarsi al sistema.

Difficile trovare un filtro morale in questo meccanismo? Sicuramente. Ma se siete CEO, tecnologi o anche solo cittadini digitali consapevoli, sapete che la tecnologia è uno strumento neutro, che diventa pericoloso solo nelle mani sbagliate. Meta ha scelto di giocare sul terreno dello sfruttamento massivo dei dati, mettendo a rischio non solo la privacy individuale, ma la stessa struttura della nostra identità digitale.

Chi non agirà oggi, domani scoprirà che la sua immagine, la sua voce e le sue idee sono state usate per alimentare intelligenze artificiali senza alcun controllo, senza alcuna trasparenza. Il tempo è scaduto, o almeno, sta per farlo.

Quindi, la prossima volta che qualcuno vi dice “tanto non hai nulla da nascondere”, ricordate questa storia. Perché quel “nulla” potrebbe diventare il carburante per il prossimo algoritmo che deciderà, al posto vostro, cosa vedere, cosa comprare, chi essere. E questa, cari amici, non è fantascienza, è la realtà di domani.

La domanda vera, però, è un’altra: quanto siete disposti a farvi prendere per il collo da un gigante digitale prima di dire “basta”?