Nel grande teatro della proprietà intellettuale, Getty Images recita il ruolo dell’eroe stanco ma determinato, intento a difendere la sua galleria di milioni di immagini da un nemico nuovo, veloce e sfuggente: l’intelligenza artificiale generativa.
A lanciare l’allarme è stato direttamente Craig Peters, CEO di Getty, in un’intervista alla CNBC. Le sue parole pesano come una sentenza: “Stiamo spendendo milioni di dollari per ogni singolo caso giudiziario”. Il tono è quello di chi combatte non contro la concorrenza – quella leale, beninteso – ma contro un furto in piena regola, camuffato da progresso tecnologico.
La battaglia legale più emblematica è quella contro Stability AI, colosso della generazione automatica d’immagini, accusato di aver “preso in prestito” 12 milioni di foto Getty senza nemmeno chiedere “per favore”. L’oggetto del contendere? Il presunto utilizzo di quel materiale per addestrare Stable Diffusion, uno dei modelli più popolari per creare immagini sintetiche.
Stability AI si difende: nega tutto – o quasi. Ammette che qualche immagine trovata online è finita nel training set, ma nega che ci sia stata una copia diretta o una violazione del copyright. In fondo, dicono, le immagini generate dall’AI non sono copie, ma reinterpretazioni. Quasi arte concettuale. E forse anche un po’ dadaista.
Gli avvocati dello studio Brandsmiths, intervistati dalla CNBC, fanno notare che il caso si gioca proprio su questo confine sottile: se il risultato generato non è una riproduzione diretta, può essere considerata una violazione del copyright? La risposta, per ora, è: “Dipende”. Ovvero la parola preferita in ogni aula di tribunale.
Getty non è sola in questa crociata. Prima è stato il New York Times a puntare il dito contro OpenAI, accusata di aver trasformato articoli protetti in risposte per ChatGPT. Poi, nel giugno scorso, sono scese in campo anche le major discografiche americane, trascinando in tribunale Suno e Udio, due startup di AI musicale che avrebbero usato canzoni protette per insegnare ai loro algoritmi come suonare alla Drake, ma senza versare un centesimo di royalties.
Insomma, la partita tra copyright e intelligenza artificiale si fa sempre più tesa. E se da una parte le aziende creative rivendicano il diritto a non essere cannibalizzate, dall’altra gli sviluppatori AI sostengono di stare solo “imparando dal mondo”, come ogni buon artista ha sempre fatto. Con la differenza che qui il mondo intero è stato scaricato, compresso, impacchettato e dato in pasto a una GPU.
Una cosa è certa: nel nuovo far west dell’AI generativa, la legge sta inseguendo il treno in corsa. E Getty, con il suo budget legale a sei zeri, è uno dei pochi cowboy rimasti ancora in sella.