C’è una cosa che i CEO dovrebbero temere più del prossimo LLM a codice aperto, più delle grida isteriche sul copyright dei dataset e più degli investitori che chiedono “quali sono i tuoi use case AI”: il data poisoning. Non è un meme su X. È l’arte sottile, ma letale, di iniettare veleno nell’inconscio dei nostri modelli. Parliamo di AI data security, la keyword madre, e dei suoi derivati semantici: data provenance e data integrity.

Nel documento appena rilasciato dall’NSA, CIA, CISA, ASD, NCSC-UK, NCSC-NZ e probabilmente anche da tuo cugino che ha fatto un corso Udemy su Python, emerge un messaggio chiarissimo: se stai sviluppando sistemi AI e non stai tracciando ogni singolo byte come fosse plutonio arricchito, sei già fregato. Semplicemente non lo sai ancora.

Il ciclo di vita di un sistema AI quella parodia agile che parte da Plan & Design e arriva fino a Operate & Monitor è disseminato di trappole. No, non parliamo solo di bug, ma di qualcosa di molto più silenzioso: dati corrotti, modificati, dopati o invecchiati male. L’intelligenza artificiale, quella vera, impara tutto da lì. I tuoi preziosi modelli non sono altro che il distillato statistico della tua spazzatura.

Ecco la verità: se controlli i dati, controlli l’AI. Ed è per questo che ogni criminale informatico oggi non cerca più solo backdoor nei firmware, ma lavora per manipolare immagini JPEG in dataset open source, manomette pagine di Wikipedia poco prima dei dump mensili e compra domini scaduti solo per sostituire immagini linkate in LAION-2B con pornografia criptata. A volte basta un investimento di 60 dollari per avvelenare un’intera architettura multimodale.

Se ti stai chiedendo cosa puoi fare, sei già in ritardo. Ma puoi almeno evitare il collasso.

Prima regola: provenienza dei dati. Traccia tutto. Ogni file, ogni riga di testo, ogni frame video deve avere una cronologia notarile. Database append-only firmati crittograficamente, sistemi di verifica hash, certificazioni tipo “chain of custody” digitale. Pensavi che bastasse firmare un NDA con chi ti vende i dati? È come installare un firewall nel 2025 e sentirsi sicuri.

Poi c’è l’integrità dei dati, da preservare con la stessa ossessione con cui Apple preserva i suoi margini lordi. Non basta sapere da dove arriva un dato, bisogna sapere se è stato toccato, ritoccato, o interpretato da un algoritmo malevolo (o da un data scientist con la scadenza lunedì mattina).

Nel mezzo, troviamo l’inferno del modello addestrato male. Le tecniche di avvelenamento non sono più teoria accademica: sono applicazioni operative con ROI positivo per chi le usa. Inserire esempi distorti, ritoccare label, modificare pattern impercettibili: ogni AI robusta diventa prevedibilmente fragile se nutri il modello con tossine ben piazzate.

E poi c’è la drift, la vecchiaia del dato. Anche se il tuo dataset fosse perfetto nel 2023, oggi può essere letale. Il contesto cambia, i significati si spostano, le relazioni evolvono. E l’AI? Rimane lì, a credere che “Roma Capitale” significhi ancora politica. Quando invece oggi potrebbe riferirsi a un NFT del Colosseo o a una DAO di turisti incazzati. Il modello non capisce che il mondo cambia — a meno che tu non lo nutra, lo monitori, lo verifichi. Periodicamente. Con rigore.

Non dimentichiamo l’anello debole: chi consuma il dato. L’ingegnere junior che scarica da Hugging Face, il team di ML che si affida a GitHub senza domande. Cosa succede se quel modello fondazionale che hai fine-tuned è stato addestrato su dati manomessi? Hai appena incapsulato il veleno dentro al cuore del tuo business. E sì, qualcuno potrebbe accorgersene solo dopo la IPO.

Il documento ufficiale parla chiaro: ci vuole una catena di custodia crittografata, firme digitali, verifica automatica degli hash, classificazione dei dati per livello di sensibilità, cifratura AES-256, e gestione della privacy tramite tecniche come differential privacy, federated learning e secure multi-party computation.

Ma tutto questo non funziona se l’infrastruttura non è zero-trust, se le pipeline non sono isolate, se non c’è un audit continuo. Ogni millisecondo in cui un dato vive fuori da questi confini è un’occasione di compromissione.

Il paradosso è servito: più investiamo in AI, più esponiamo il nostro cervello digitale al rischio di essere riplasmato da mani invisibili. La cybersecurity dei dati AI non è solo un tema tecnico, ma etico, politico, esistenziale. È la nuova bioingegneria della conoscenza.

E la cosa più ironica? Molte delle AI che oggi generano articoli, immagini, codice — inclusi quelli che leggiamo per proteggerci — potrebbero essere state già contaminate. Una perfetta tautologia computazionale: il serpente che mangia la propria coda… in formato JSON.

Ma ehi, se il tuo modello funziona, chi se ne frega, giusto?

Come disse un ex CEO di un’azienda che ora si chiama solo “X”:

“Se non sai cosa c’è nel tuo dataset, stai solo giocando alla roulette con l’intelligenza artificiale. E la pistola è caricata.”

Scrolla pure, ma ogni pixel che generi potrebbe essere già infetto. Grazie Dott. Bareato per la segnalazione.