Splendida cornice di Vicolo Valdina, dove il tempo sembra scorrere più lentamente ma i pensieri accelerano. Un luogo che oggi si fa teatro di un confronto necessario, urgente, direi quasi inevitabile. Inauguriamo qui un ciclo di seminari che abbiamo voluto intitolare “La Tecne e la Polis”, un’espressione che richiama non solo l’antica tensione tra il fare e il governare, ma anche il cuore pulsante delle sfide che ci aspettano. Quattro lezioni, quattro traiettorie critiche per esplorare l’attualità e, soprattutto, per immaginare il futuro con occhi più consapevoli e strumenti più affilati.

La Prima Tappa è affidata al professor Giorgio Parisi, Premio Nobel per la Fisica, mente lucida e voce critica nel panorama scientifico e culturale internazionale, già presidente dell’Accademia Nazionale dei Lincei. La sua presenza oggi è più di un contributo accademico: è un segnale, una chiamata a non separare mai la complessità del pensiero scientifico dalla responsabilità civica.

Ecco, se la Tecne rappresenta la nostra capacità di intervenire sul mondo, di modificarlo, di piegarlo ai nostri scopi attraverso l’ingegno, la Polis è lo spazio dove decidiamo collettivamente che uso farne. L’una senza l’altra genera mostri: tecnica senza etica, politica senza visione. O peggio ancora, algoritmi al servizio del consenso cieco, reti neurali che sostituiscono il dibattito, intelligenze artificiali che diventano i nuovi oracoli, idolatrate come fossero dèi postmoderni.

Questo ciclo nasce dal bisogno di rompere la narrazione anestetizzata del progresso. Basta con l’ottimismo da brochure, con le slides patinate che raccontano un futuro digitale come fosse un destino inevitabile. Non lo è. Nulla lo è, se ci assumiamo la responsabilità di pensare, discutere, dissentire. E chi meglio di un fisico teorico come Parisi, che ha insegnato al mondo come l’ordine possa emergere dal disordine, può aiutarci a decifrare le forme della complessità che ci avvolge?

In un’epoca in cui tutto è accelerazione, fermarsi a pensare è l’atto più rivoluzionario. La velocità con cui le tecnologie si insinuano nelle pieghe della nostra vita civile, culturale, economica, non ha precedenti. Ma questo non significa che dobbiamo abbandonare la riflessione, anzi. Significa che dobbiamo moltiplicare gli spazi di confronto, aprire fessure nel racconto dominante, riprenderci il tempo lungo del pensiero critico. Perché senza pensiero non c’è progetto, solo reazione. E la reattività, si sa, è il terreno su cui prosperano il populismo digitale e la tecnica priva di scopo.

La Tecne e la Polis, quindi, non è un titolo accademico. È una provocazione. È un invito a riscoprire la cittadinanza come esercizio della mente. È una sfida, anche, perché ci obbliga a riconoscere che i nostri strumenti sono imperfetti, le nostre previsioni fragili, ma che è proprio da questa fragilità che può nascere una nuova etica della responsabilità. Non quella moralistica, da salotto, ma quella strutturale, che tiene insieme codice e Costituzione, calcolo e cultura.

La sua ricerca sui sistemi complessi ci parla in modo diretto: ci dice che non esistono soluzioni semplici per problemi complessi, che il caos non è assenza di ordine ma prefigurazione di una nuova grammatica. Una lezione che la politica dovrebbe tatuarsi sulla pelle. E che anche noi, come cittadini, dovremmo interiorizzare ogni volta che ci illudiamo che basti un’app per risolvere una crisi o un algoritmo per capire una società.

Oggi più che mai abbiamo bisogno di pensatori che sappiano coniugare rigore e immaginazione, scienziati che parlino al di là delle formule, intellettuali che non si nascondano dietro la neutralità. E se c’è una figura che incarna questo modello, è proprio Parisi. Con il suo lavoro, con le sue parole pubbliche, con il suo impegno civile. Non si tratta solo di divulgare, ma di assumere una postura etica di fronte al sapere: non basta capire il mondo, bisogna anche decidere da che parte stare.

Ed è questa, forse, la posta in gioco più alta di questo ciclo. Non spiegare la tecnologia, ma scegliere come e dove farla vivere. Non temere il futuro, ma costruirlo in modo tale da non tradire il presente. Non cedere alla seduzione della semplificazione, ma addestrarsi al pensiero complesso come unico antidoto alla deriva tecnocratica.

Vicolo Valdina non è solo un luogo fisico, oggi. È una soglia. Un punto di passaggio tra ciò che siamo stati e ciò che potremmo diventare. È uno spazio in cui l’intelligenza quella umana, troppo umana – si riappropria della parola, del dialogo, del conflitto costruttivo. E se saremo capaci, insieme, di far vivere questo spazio anche fuori da queste mura, allora avremo davvero iniziato a costruire quella Polis nuova di cui tanto parliamo e poco ci occupiamo.

Con questo spirito, con questa tensione, l’On. Anna Ascani ha aperto “La Tecne e la Polis”. E lo ha fatto con la consapevolezza che non c’è tempo da perdere, ma anche con la convinzione che il tempo, se usato bene, può ancora essere nostro alleato.

Il primo incontro del ciclo di seminari a Vicolo Valdina ha messo in scena una narrazione che, con sobrietà istituzionale e una certa tensione epistemologica, ha attraversato decenni di storia dell’intelligenza artificiale, sfiorando le sue vette concettuali e le sue ombre più torbide. A guidare il pubblico in questo viaggio è stato Giorgio Parisi, Premio Nobel per la Fisica e voce sempre più centrale nel dibattito contemporaneo sull’IA, con un intervento che ha evitato gli entusiasmi da Silicon Valley per rimanere ancorato a ciò che l’IA è davvero: un’architettura che rielabora il passato più che prefigurare il futuro.

Non una macchina del tempo, insomma, ma un frullatore semantico travestito da profeta. Parisi ha ricordato che le reti neurali, oggi protagoniste assolute del palcoscenico tecnologico, non sono nate ieri. La loro genealogia affonda le radici nei decenni passati, tra intuizioni teoriche e sviluppi sperimentali, ma ciò che oggi cambia tutto è l’enorme disponibilità di dati e la potenza computazionale. È qui che l’illusione si insinua: credere che un sistema, per quanto sofisticato, possa produrre vera creatività quando in realtà sta solo ricombinando pattern già visti, compressi in modo elegante ma sempre derivativi. L’IA, per Parisi, non ha immaginazione. Ha solo memoria, e una memoria che non dimentica mai è spesso una prigione.

A fare da contrappunto, l’introduzione di Anna Ascani, Vicepresidente della Camera, che ha invocato un approccio etico e consapevole, sottolineando il bisogno di mettere l’essere umano al centro della rivoluzione tecnologica. Una formula che suona bene, certo, ma che rischia di perdersi nel rumore di fondo se non si accompagna a decisioni politiche concrete, competenti e soprattutto tempestive. L’IA non aspetta i tempi parlamentari.

Il problema è che mentre discutiamo se sia giusto o meno far scrivere poesie a un algoritmo, l’algoritmo sta già scrivendo codici, generando immagini, elaborando scenari finanziari, pilotando veicoli, valutando profili creditizi, influenzando campagne elettorali. È un paradosso tipico delle tecnologie dirompenti: ci sorprendono mentre sono già operative. E ci illudono che siano ancora in fase sperimentale, mentre invece siamo noi a essere sotto esame.

L’intervento di Parisi ha avuto il merito di restituire complessità al dibattito. Nessun tecno-entusiasmo, nessuna apocalisse. Solo l’invito a riconoscere la natura profonda degli algoritmi come strumenti. Potenti, sì, ma strumenti. Non entità senzienti, non soggetti morali, non nuovi demiurghi digitali. È la governance, non la tecnologia in sé, a determinare se l’IA sarà un moltiplicatore di disuguaglianze o una leva per redistribuire conoscenza e potere. Detto altrimenti: non sarà ChatGPT a decidere il nostro destino, ma come e da chi sarà addestrato, impiegato, regolato.

Naturalmente, questo approccio razionale è molto meno sexy della narrativa dominante, che alterna visioni utopiche e distopie hollywoodiane. Ma forse è proprio per questo che è necessario. L’IA non è un oracolo, ma una funzione matematica. Non ci dice ciò che è giusto, ma ciò che è probabile. E in un’epoca che confonde il consenso con la verità, questo dovrebbe preoccuparci.

L’altro aspetto interessante del dibattito è la costante tensione tra innovazione e umanità. Parisi, da scienziato, sa bene che ogni salto tecnologico comporta rischi. Ma sa anche che ogni resistenza aprioristica è futile. Non si tratta di fermare l’intelligenza artificiale, ma di guidarne lo sviluppo in modo che serva l’interesse collettivo. Il che, tradotto in termini politici, significa decidere a chi appartengono i dati, chi scrive gli algoritmi, chi stabilisce le priorità. In altre parole, chi ha il potere.

Il rischio, oggi, è che l’IA diventi una nuova forma di colonizzazione cognitiva, dove pochi attori privati detengono le chiavi dell’intelligenza globale, mentre il resto del mondo si limita a consumare output. Un mondo dove il codice è legge, ma la legge non conosce il codice. Dove l’opacità degli algoritmi diventa una cortina di fumo dietro cui si esercitano forme inedite di controllo sociale, sorveglianza e manipolazione. E tutto questo nel nome dell’efficienza.

“Gli algoritmi non inventano il futuro”, ha detto Parisi, e la frase ha il sapore della provocazione necessaria. In un’epoca ossessionata dalla disruption, ricordare che il futuro non si genera per via computazionale ma per volontà politica è quasi un atto rivoluzionario. Serve a ribaltare la retorica dominante, che vede l’essere umano come una variabile secondaria in un processo ineluttabile. Al contrario: l’IA non è destino, è progetto. E ogni progetto ha bisogno di architetti responsabili.

In questo senso, la riflessione proposta nel seminario di Vicolo Valdina non è stata solo accademica. È stata politica, nel senso più alto del termine. Perché ha messo al centro la questione cruciale: chi decide? La tecnologia non è neutra, e chi lo ripete continua a confondere la matematica con l’ideologia. Gli algoritmi sono scritti da persone, addestrati su dati che riflettono pregiudizi, ombre, errori sistemici. Credere che il machine learning sia imparziale è come pensare che un tribunale possa essere giusto solo perché recita il codice.

Il dibattito sull’IA ha oggi bisogno urgente di voci competenti, e ancor più di teste pensanti che sappiano sottrarsi alla fascinazione dell’automazione totale. Servono scienziati, certo, ma anche filosofi, sociologi, giuristi, linguisti, urbanisti, artisti. Perché l’intelligenza artificiale tocca tutto: dalla produzione al desiderio, dall’identità alla cittadinanza. È una questione culturale prima che tecnologica.

Se c’è una speranza, in questo scenario, è che eventi come quello di Vicolo Valdina diventino la regola e non l’eccezione. Che la politica torni a essere un luogo di elaborazione e non solo di rincorsa. Che si torni a parlare di IA come di una questione pubblica e non come di un prodotto privato. E soprattutto che si comprenda, una volta per tutte, che governare l’intelligenza artificiale non significa solo proteggerci dai suoi rischi, ma anche difendere la nostra libertà di scegliere il tipo di futuro che vogliamo.

O, come direbbe Parisi, “ricombinare il passato va bene, purché qualcuno si prenda la briga di immaginare davvero il domani”. Ma questa, purtroppo, non è un’attività che si può delegare a un algoritmo.