La rivoluzione della mobilità autonoma non si sta più avvicinando. È già parcheggiata al semaforo, con il motore acceso. E mentre Elon Musk gioca a fare il Kubrick del traffico texano con le sue Model Y che sfrecciano senza mani ad Austin, nel cuore del vecchio continente si prepara una partita ben più strategica, ben più pericolosa — e ben più affascinante.
A Londra, Uber ha deciso che è tempo di fare sul serio con l’intelligenza artificiale applicata alla mobilità urbana. La partnership con Wayve, startup britannica a metà tra Cambridge Analytica e un film cyberpunk, non è un semplice “test”. È l’inizio di una guerra. Una guerra ai conducenti umani, alle regole scritte da esseri umani, e forse — azzardiamolo — alla logica lineare con cui abbiamo gestito le città nell’ultimo secolo.
Wayve non costruisce veicoli. Costruisce cervelli. Il suo approccio è definito “AI incarnata”: significa che invece di dire a una macchina cosa fare, la si lascia imparare come fare. Non si ragiona più con le if-then-else della guida autonoma tradizionale (vedi semaforo rosso, frena), ma con reti neurali che osservano, memorizzano, predicono e decidono. È come se un autista apprendesse dall’esperienza, da milioni di ore di guida, e poi reagisse in tempo reale a ogni stimolo stradale — ma senza caffè, sindacati o pause pranzo.
Uber, ovviamente, non è nuova alla fantascienza disillusa. Dopo l’abbuffata di investimenti fallimentari in robotaxi (ricordate la sua divisione ATG, poi scaricata su Aurora Innovation come una startup fuori moda?), ora torna alla carica col pragmatismo del rentier della Silicon Valley: non costruisce nulla, integra tutto. E se può sostituire un driver con un algoritmo, lo farà. Londra sarà la prima a vedere questa fusione tra carne e silicio in azione.
La legge britannica appena approvata rende tutto più credibile: dal 2026, i veicoli autonomi avranno un percorso legale definito per circolare e operare commercialmente. Non è poco. È come passare dall’età dei corsari a quella della marina mercantile: via i pirati delle sperimentazioni isolate, avanti con le flotte regolari, assicurate, normate. L’obiettivo? Una rete mista, umana e artificiale, perfettamente integrata sull’app Uber. Un passeggero potrà non sapere, o non interessarsi, se il veicolo che arriva ha un volante o un cervello fatto di chip NVIDIA.
Intanto, oltreoceano, Tesla lancia il suo show texano. Il robotaxi Model Y, pizzicato in video ad Austin, pare il primo assaggio di quello che Musk ha promesso da anni: un esercito di auto completamente autonome, pronti a rivoluzionare il business model di Tesla come Airbnb ha fatto con l’immobiliare. Solo che, per ora, il robotaxi ha ancora la “baby sitter” — una seconda Model Y che lo segue come una madre ansiosa al primo giorno di scuola. Magari era lì per sicurezza. O magari solo per girare contenuti per X. Che poi è una metafora perfetta per l’era Musk: l’AI che guida, il pubblico che scrolla.
Ma non c’è solo spettacolo. C’è un cambio strutturale, sistemico. Il Regno Unito si propone di diventare un laboratorio reale per l’adozione commerciale della guida autonoma, mentre l’Europa continentale arranca ancora tra esperimenti da campus e governi iper-prudenti. Se Wayve e Uber riescono a dimostrare che l’AI può gestire il caos londinese — doppie file, ciclisti kamikaze, pioggia orizzontale, semafori psichedelici — allora non esisterà città al mondo dove i robotaxi non potranno circolare.
La cosa interessante, quasi cinica, è che la tecnologia di Wayve funziona meglio proprio dove le regole non bastano. Non è fatta per le autostrade rettilinee dell’Arizona. È fatta per i roundabout infernali di Tottenham, per i parcheggi abusivi di Hackney, per i pedoni che attraversano a caso a King’s Cross. Il loro deep learning ama il caos. Lo trasforma in comportamento. È come un animale urbano, addestrato nella giungla di cemento.
Nel frattempo, le implicazioni economiche e sociali sono vertiginose. Uber si sta costruendo un futuro dove gli autisti saranno opzionali. Le proteste sindacali? Ammortizzabili. I problemi di disponibilità notturna? Risolvibili. Il margine operativo? Potenzialmente esplosivo. È l’automazione travestita da servizio, il capitalismo travestito da innovazione.
Ma è anche una partita geopolitica. Perché mentre Google Waymo continua a girare in cerchio per le strade di Phoenix e Cruise si schianta metaforicamente (e talvolta letteralmente) contro la burocrazia americana, l’Europa può — per una volta — non inseguire, ma guidare. In senso letterale.
E c’è dell’ironia, naturalmente. Perché nel Paese dove il volante è a destra, l’unica cosa che conta adesso è che non ci sia nessuno al volante.
L’era dell’automazione urbana non arriverà con il rombo dei motori, ma con un silenzioso “clic” sull’app. E se tutto andrà come previsto, il prossimo taxi che vi porterà a Camden Town potrebbe essere completamente cieco, completamente sordo e — sorprendentemente — più sicuro di chiunque voi abbiate mai incontrato alle tre del mattino su un Uber.
La vera domanda non è se il robot guiderà. Ma se ci accorgeremo che ha già iniziato.