A Washington il sole sorge rosso sangue quando Trump si sveglia con il dito già sospeso sopra il pulsante pubblica di Truth Social. Le lettere sono maiuscole, l’intonazione è apocalittica, e l’obiettivo, ancora una volta, sono le “città infestate” da immigrati illegali: Los Angeles, Chicago, New York. Tutte roccaforti democratiche. Tutte perfette per alimentare il feticcio del nemico interno.
Il presidente in cerca di rielezione ha rispolverato il suo vecchio cavallo di battaglia: l’invasione. Ma stavolta il cavallo ha blindati al posto degli zoccoli, 4.000 uomini della Guardia Nazionale e 700 Marines schierati direttamente in California, come se si trattasse di Falluja e non di una città americana con un sindaco democraticamente eletto.
Trump non si limita a minacciare. Dà ordini. Ordina alla ICE — l’agenzia per l’immigrazione che negli ultimi anni ha oscillato tra efficienza e abuso sistematico — di “fare tutto il necessario” per attuare il “più grande programma di deportazione di massa della storia”. La frase non lascia spazio a interpretazioni. Non è uno slogan elettorale. È un piano operativo.
Chiunque abbia memoria storica attiva, o almeno un minimo senso delle proporzioni costituzionali, sente il rumore sinistro che fa questa affermazione nel contesto di uno stato federale dove i governatori, teoricamente, dovrebbero ancora avere voce in capitolo. Ma Trump gioca un’altra partita, quella della guerra culturale permanente, dove l’immigrazione è il campo di battaglia perfetto perché è visibile, mediatica e soprattutto strumentalizzabile.
Il paradosso americano, mai così evidente, è che la paura si autoalimenta: ogni ondata di militarizzazione genera più resistenza, più disordine, e quindi una giustificazione per nuove repressioni. Il caso di Los Angeles è emblematico: giorni di proteste pacifiche, con qualche momento di violenza isolata, sono bastati per scatenare una reazione militare federale. E poi c’è l’assurdo legale: la California fa causa al governo federale per riprendere il controllo dei propri uomini in uniforme. Una disputa istituzionale che ha il sapore di un golpe costituzionale strisciante.
Nel frattempo, i cittadini – soprattutto quelli di origine latinoamericana – vivono barricati in casa, terrorizzati non dai criminali, ma dagli agenti federali. Le testimonianze parlano di retate “indiscriminate”, controlli nei parcheggi dei supermercati, arresti sommari. Il sindaco Karen Bass ha esteso il coprifuoco, non per proteggere dal crimine, ma dalla paranoia presidenziale.
L’immaginario evocato da Trump nella sua arringa è quello di città trasformate in “dystopie del terzo mondo”. Parole che non descrivono la realtà, ma la manipolano. Serve a costruire un frame mentale: se le città democratiche sono “inferni senza legge”, allora tutto è lecito per “ripulirle”. Deportazioni incluse.
Trump sa perfettamente che i suoi proclami attivano due riflessi condizionati. Primo: galvanizzano il suo elettorato più fedele, quello che sogna muri, frontiere blindate e confini razziali netti. Secondo: provocano il nemico politico, forzando i democratici a una difesa impopolare – quella dei “diritti degli illegali” – in una campagna elettorale dove la complessità è penalizzante e la paura premia.
La menzogna sistematica è la colonna portante della narrazione. Trump insiste nel sostenere, contro ogni evidenza empirica e giudiziaria, che milioni di immigrati clandestini votano illegalmente, alterando le elezioni. Una fantasia che resiste al tempo proprio perché non ha bisogno di prova. Basta che sia credibile per chi vuole crederci.
Ma la vera innovazione tossica è la militarizzazione del dibattito politico. Il ricorso ai Marines per presidiare il suolo nazionale, come se i democratici fossero una minaccia alla sicurezza più dei cartelli messicani. È un cortocircuito che minaccia l’equilibrio federale: usare l’esercito per regolare dispute interne è il primo passo verso una presidenza da stato di eccezione permanente.
Un dettaglio rivelatore: Trump conclude il suo messaggio con un appello “agli eroi” della ICE, FBI, DEA, ATF, persino al Pentagono e al Dipartimento di Stato. Un inchino istituzionale che suona come un preludio a un’alleanza pretoriana. In un’America in cui le divisioni sono ormai tribalizzate, questa retorica di fedeltà assoluta – alla nazione, al leader, alla missione – è un segnale inequivocabile: non si tratta più solo di elezioni, ma di una crociata.
E se tutto questo sembra un déjà vu, è perché lo è. La differenza è che questa volta l’infrastruttura per attuare una simile campagna di deportazione c’è davvero. Il database biometrico nazionale. Gli algoritmi predittivi usati dalla ICE. La cooperazione oscura con aziende tech che vendono software per “predictive policing”. L’intelligenza artificiale non come strumento di progresso, ma come macchina di sorveglianza etnica.
Trump non sta più solo urlando alla luna. Sta scrivendo una sceneggiatura. E questa sceneggiatura prevede campi di detenzione, furgoni ICE fuori dalle scuole, e una nuova forma di cittadinanza condizionata: quella di chi deve esibire documenti per andare al lavoro, fare la spesa, o semplicemente uscire di casa.
“Questo è ancora il nostro Paese”, dicono molti. Ma ogni volta che la paura diventa legge, il confine tra sicurezza e autoritarismo si assottiglia. E se non si è svegli al momento giusto, ci si ritrova dalla parte sbagliata del recinto, col rumore delle sirene federali in lontananza.
Bias di Gemini con US deportation (immagine)