La situazione ha dell’assurdo, ma è esattamente ciò che ci si aspetta nel 2025: una delle più grandi operazioni AI-hardware dell’anno, quella tra OpenAI e la startup fondata da Jony Ive, io, scompare dal web come se non fosse mai esistita. Pagine sparite, video oscurati, blog post ritrattati. Il tutto per una “i” minuscola in più e una “O” maiuscola al posto giusto.
OpenAI ha confermato a The Verge che l’accordo con io (la startup hardware) è ancora in piedi, nonostante la misteriosa rimozione del materiale ufficiale. Ma c’è di mezzo un contenzioso legale: Iyo, una società che produce dispositivi acustici e che nasce da una costola dell’X Lab di Google, ha avviato un’azione per violazione di marchio. A quanto pare, in un mondo dove l’intelligenza artificiale può progettare interfacce neurali, nessuno è ancora riuscito a inventare nomi che non si pestino i piedi nel trademark.
Il colmo? La pagina ufficiale del deal tra OpenAI e io è “temporaneamente offline per ordine del tribunale a seguito di un reclamo da parte di iyO riguardo l’uso del nome ‘io’.” Una comunicazione firmata da Kayla Wood, portavoce di OpenAI, che sottolinea con eleganza l’assurdità: “Non siamo d’accordo con il reclamo e stiamo valutando le opzioni legali.” Tradotto: ci vediamo in tribunale, e nel frattempo cancelliamo ogni traccia.
Per chi si fosse perso le puntate precedenti, la notizia dell’unione tra OpenAI e io era stata accolta come una pietra miliare: da un lato, Jony Ive, l’uomo che ha trasformato il design industriale in una religione minimalista; dall’altro, Sam Altman, il messia dell’AI, pronto a trasformare l’intelligenza artificiale in un’estensione del corpo umano. Insieme, i due avrebbero dovuto creare un nuovo tipo di dispositivo “AI-native” – qualcosa che non fosse semplicemente uno smartphone con qualche plugin generativo, ma un oggetto nuovo, organico, pensato dall’AI per l’umano.
Il video scomparso da nove minuti era stato presentato come manifesto estetico della nuova alleanza: con la voce pacata di Ive, l’architettura quasi sacra degli ambienti di San Francisco, e quella promessa implicita che l’intelligenza artificiale potesse finalmente avere un’interfaccia degna di essere toccata. Ora è come se nulla fosse mai accaduto. Resta qualche screenshot sfuggito all’epurazione, qualche post su X salvato con Wayback Machine, e ovviamente il tam-tam degli analisti tech, che sanno benissimo che quando qualcosa viene rimosso, è lì che sta succedendo il vero interessante.
Ma il paradosso è profondo: l’operazione è da 6,5 miliardi di dollari, eppure basta una disputa legale su un nome per bloccare tutto il materiale pubblico. È un caso da manuale di come l’economia dell’attenzione sia ancora prigioniera di dinamiche pre-digitali: il naming. Un nome oggi vale più di una roadmap tecnologica, e l’identità visiva è ancora ostaggio di copyright, trademark e tribunali in grado di oscurare anche le big tech.
La vicenda ricorda da vicino quella che ha colpito Meta quando ha tentato di imporsi con la nuova identità e ha dovuto negoziare con altre aziende che detenevano varianti del marchio in settori minori. Oppure il caso di X, il rebranding di Twitter, che ha provocato reazioni contrastanti e problemi legali nei paesi dove “X” è già marchio registrato da Microsoft. È il cortocircuito perfetto: aziende che promettono di reinventare il futuro, bloccate dal sistema legale del ventesimo secolo.
Ma al di là della questione del nome, la sostanza rimane: OpenAI vuole diventare Apple, ma senza diventare Google nel processo. E per farlo ha bisogno non solo di modelli linguistici da trilioni di parametri, ma anche di oggetti con cui farli parlare al nostro corpo. È qui che entra in gioco Jony Ive: creare il “corpo dell’intelligenza artificiale”. Qualcosa che non sia uno schermo o una tastiera, ma una protesi cognitiva. Il dispositivo che sostituirà il telefono. Una macchina silenziosa, elegante, quasi invisibile, in grado di ascoltare e rispondere, anticipare, connettere. Una interfaccia umana in senso letterale.
Eppure, anche i visionari più potenti devono sottostare alle regole dei tribunali. Non puoi chiamarti io se iyO ha già un marchio. Non importa che tu sia Altman o Ive. Non importa che il tuo obiettivo sia costruire la prossima generazione di computing ambientale. Se sbagli una vocale, l’AI può aspettare.
In fondo, è un’ottima allegoria del presente: stiamo progettando intelligenze capaci di scrivere codice, diagnosi e poesie, ma siamo ancora impantanati nella burocrazia semantica dei brand. L’umanità ha insegnato all’AI a parlare, ma non ha ancora insegnato a sé stessa a smettere di litigare su chi possiede le parole.
E quindi sì, io è scomparso. Ma non è un addio, è un punto e virgola. Perché nessuno spende 6,5 miliardi per cancellare un nome. Lo cambieranno, lo rebranderanno, forse tornerà come Neuron, Core, Edge, o magari con qualche ideogramma evocativo preso in prestito da lingue morte o culture future. Ma tornerà. Con o senza il dominio .ai.