Questa è la Silicon Valley nel suo stato più puro: miliardi di dollari, nomi vagamente minimalisti, promesse di rivoluzioni e una lunga scia di ego feriti. La battaglia legale tra OpenAI e la piccola startup Iyo è più di una lite su un nome è un riflesso cristallino dell’industria tecnologica attuale, dove la prossimità a un visionario può valere più di qualsiasi brevetto. Quando Sam Altman pubblica le email private su X per “fare chiarezza”, non lo fa per trasparenza: lo fa per segnare il campo. Il messaggio è chiaro: questo è il nostro terreno, e vi abbiamo già battuti prima ancora di iniziare.

Al centro del contenzioso c’è un dispositivo AI ancora misterioso, un prodotto nato dalla collaborazione tra OpenAI e Jony Ive l’uomo che ha disegnato l’iPhone e ora promette di reinventare l’interfaccia uomo-macchina. Il nome iniziale? io, minuscolo, pulito, evocativo. Peccato che fosse quasi identico a quello della startup di Jason Rugolo: IyO, un progetto dichiaratamente simile, in sviluppo dal 2018, che si presenta come “l’interfaccia hardware definitiva per gli agenti AI”. Tradotto dal gergo delle startup: un auricolare smart progettato per dialogare in tempo reale con intelligenze artificiali. Rugolo l’ha lanciato, l’ha pitchato, l’ha dimostrato… anche a Sam Altman in persona.

Le email pubblicate mostrano un tono inizialmente amichevole. Rugolo chiede un investimento da 10 milioni, Altman risponde che sta lavorando a “qualcosa di competitivo”, ma lascia aperta una porta, forse per cortesia, forse per strategia. Poi il nulla, se non freddi scambi in cui si capisce che l’interesse di OpenAI è evaporato. Quando io viene annunciato pubblicamente, Rugolo si rende conto che non è solo escluso: è stato, secondo le sue parole, giocato. E qui inizia la fase due: l’azione legale.

Dal punto di vista di Altman, la faccenda è una “delusione” — e usa parole scelte con cura per delegittimare l’accusa: “silly”, “wrong”. È una strategia raffinata e antica quanto la politica: se non puoi negare l’evidenza, svilisci l’interlocutore. Altman non nega di aver saputo di Iyo. Al contrario, lo enfatizza: “ci ha chiesto insistentemente di investire, noi abbiamo rifiutato”. Come dire: non solo non lo abbiamo copiato, ma non ci interessava nemmeno.

Rugolo, da parte sua, non ci sta a recitare il ruolo del querelante rancoroso. Su X risponde con tono sommesso, quasi da underdog spirituale: “mi sembra una pessima forma da parte tua, Sam”. Ma la frase che fa tremare i vetri degli acceleratori di startup è un’altra: “mi sono fatto fregare, gli ho dato tutto”. In una manciata di caratteri, Rugolo descrive la trappola psicologica perfetta in cui cadono tanti founder quando incontrano un investitore potente. Non serve un furto industriale per danneggiare un concorrente: basta farsi raccontare tutto, dire “ci sentiamo”, e poi scomparire con una versione potenziata dello stesso concept.

La questione legale verte su un dettaglio cruciale: il nome. Quando il marchio io è stato lanciato, la somiglianza con IyO era evidente. Così evidente che il 22 giugno OpenAI ha rimosso tutto il branding “io” dai suoi canali ufficiali, costretta da un’ordinanza restrittiva temporanea. Sottolineo: temporanea, ma abbastanza seria da far sparire ogni traccia pubblica del nome. A quel punto, l’argomento di OpenAI è diventato tecnico: “il nostro hardware non è un auricolare, né un wearable”. Argomento che ha senso solo se ignoriamo la fluidità moderna tra forma e funzione. Un “dispositivo AI” oggi può essere un auricolare, domani una clip da giacca, dopodomani un tatuaggio neurale.

Dietro il polverone legale, emerge il vero nodo della questione: la nuova corsa all’oro dell’interfaccia AI. Non è più solo una gara di software. Il valore adesso è nella forma con cui l’AI si manifesta nel mondo fisico, nel ponte tra linguaggio umano e intelligenza sintetica. Da qui il coinvolgimento di Jony Ive, da qui la rivalità con chi, come Rugolo, ci ha scommesso tutto. Le aziende non stanno più cercando solo di “costruire intelligenze artificiali”. Stanno cercando di incarnarle e chi riesce a farlo con stile e controllo del brand vince l’intero ecosistema.

È una guerra di percezioni, non solo di codici o brevetti. Il nome io (minuscolo, minimale, generico) ha un potere simbolico enorme: allude al pronome personale, alla soggettività, all’idea che l’AI diventi tu. Oppure peggio: me. Cambiare nome non è solo una questione di etichetta, è una ferita al cuore del progetto. E OpenAI lo sa benissimo.

Nel frattempo, il dispositivo “che non si può nominare” continua il suo sviluppo. Il fatto che non sia tecnicamente un wearable è un cavillo, non un vantaggio. La scommessa vera è sul controllo della relazione utente-AI, e lì, ogni dettaglio conta: il nome, la voce, la forma, il primo impatto. Chi possiede quell’interfaccia, possiede l’utente. E chi possiede l’utente… beh, possiede il mercato.

Se questa causa dovesse proseguire e non sarà né breve né economica potrebbe ridefinire il modo in cui le big tech si muovono nel territorio delle startup. Non basterà più dire “stiamo lavorando su qualcosa di simile”. Ogni parola detta in una call, ogni slide condivisa in un pitch, ogni email, potrebbe tornare come un boomerang. Il tempo in cui bastava cambiare una lettera nel nome e sperare che il più piccolo tacesse è finito.

Il paradosso è che, nel tentativo di sminuire Rugolo, Altman lo ha reso famoso. Gli ha dato voce, visibilità e soprattutto una narrativa. Non più solo “il tizio con l’auricolare AI”, ma l’uomo che ha sfidato OpenAI e Jony Ive sul nome stesso dell’identità digitale. In un mondo dove la percezione è tutto, può bastare per vincere almeno una battaglia.

E alla fine, chi vince davvero? Chi riesce a vendere prima il proprio concetto di futuro. Con o senza auricolari. Con o senza io.