Nel teatrino sempre più surreale della comunicazione finanziaria, Oracle ha appena alzato il sipario su uno dei suoi momenti più strani, più affascinanti e, a modo suo, più geniali. Mentre i competitor si arrampicano sugli specchi per strappare qualche menzione in un blog di settore, Larry Ellison & co. decidono che un colossale accordo cloud da oltre 30 miliardi di dollari l’anno non meriti un comunicato stampa, né una fanfara condita da parole chiave ridondanti come “AI-native” o “cloud-first architecture”.
No, loro lo infilano di soppiatto in un documento per la SEC, intitolato con sobria precisione “Regulation FD Disclosure”, senza nemmeno la voglia di inventarsi un nome altisonante e per chi si chiedesse cosa significhi tutto ciò: vuol dire che Oracle ha deciso di fare la rockstar in giacca e cravatta, suonando heavy metal in una riunione del consiglio d’amministrazione.
Ma non è solo una questione di forma. È una lezione di sostanza travestita da provocazione. Mentre altri celebrano metriche di vanità o traguardi costruiti a tavolino, Oracle sottovoce lascia trapelare che ha firmato uno degli accordi cloud più grandi della sua storia. Una cifra che supera di slancio tutto il suo fatturato cloud attuale, proiettandola in un futuro dove probabilmente smetterà di essere vista come il parente un po’ ingessato di Amazon, Google e Microsoft.
Un futuro dove Oracle, invece di correre dietro ai trend, decide di riscrivere le regole del gioco.Il linguaggio utilizzato nel documento è altrettanto enigmatico. Safra Catz, CEO di Oracle e una delle poche figure nella Silicon Valley a poter trasformare un meeting interno in una dichiarazione finanziaria, “prevede di incontrare altri colleghi di Oracle più tardi oggi” per condividere la lieta novella. Sembra una sceneggiatura scartata da un episodio di Succession, ma funziona.
Il messaggio implicito è che questo è solo l’inizio, una sorta di teaser economico di una stagione molto più lunga e intensa. Gli analisti, ovviamente, si sono precipitati a interpretare ogni virgola. Gli investitori? Euforici.
Il titolo è salito del 4% in una sola giornata, segno che il messaggio, per quanto anomalo, è stato ricevuto forte e chiaro.In questo gesto c’è qualcosa di più profondo di una semplice eccentricità aziendale. È l’indizio di un cambiamento di paradigma: Oracle ha deciso che non ha più bisogno di urlare per essere ascoltata. Non cerca visibilità, la impone. Non rincorre le narrazioni, le plasma. In un mercato dove la comunicazione è spesso più importante del contenuto,
Oracle si prende il lusso raro di comunicare meno ma dire di più. Un paradosso che funziona solo se alle spalle hai contratti da 30 miliardi che parlano da soli.Ora, la parte più interessante riguarda il timing e la struttura di questo annuncio. Nessuna data precisa. Nessuna informazione sui clienti coinvolti. Nessun dettaglio tecnico. Solo una promessa vaga ma colossale.
La dichiarazione dice che “si prevede contribuirà a oltre 30 miliardi di dollari di fatturato annuo a partire dall’anno fiscale che si concluderà a metà del 2028”, il che significa che Oracle non sta parlando di ricavi già consolidati, ma di una pipeline così robusta da sembrare irreale e in un contesto macroeconomico dove l’incertezza regna sovrana, fare una proiezione simile significa una sola cosa: sei disperatamente sicuro di quello che stai facendo.
C’è chi ha subito pensato a un cliente governativo. Forse il Dipartimento della Difesa degli Stati Uniti, o qualche ente federale con esigenze di storage e sicurezza esoteriche. Forse un’alleanza strategica con un colosso industriale o bancario. Ma la verità è che Oracle non ha detto nulla e proprio questo silenzio ha generato un effetto doppler di attenzione, amplificato dal mistero. Le intelligenze artificiali non dormono mai, e nemmeno gli hedge fund: nei minuti successivi al deposito SEC, gli algoritmi di sentiment analysis hanno cominciato a rimbalzare quella notizia in ogni direzione, segno che anche il silenzio, se dosato con maestria, può diventare un segnale potentissimo.
Chi si ostina a credere che Oracle sia ancora una reliquia degli anni Novanta dovrebbe forse aggiornare il firmware mentale. Dietro le sue scelte comunicative da high priest dell’enterprise IT si nasconde una lucidità strategica disarmante. Oracle non gioca più per visibilità, ma per influenza e in un’epoca in cui tutti parlano di intelligenza artificiale generativa, l’azienda sembra interessata a dominare l’unico campo dove l’AI non può ancora competere: la sottigliezza umana del tempismo, della narrativa obliqua, del colpo di scena ben piazzato.
Per chi guarda il mercato del cloud da dentro, la mossa di Oracle è un chiaro segnale di mutamento strutturale. Fino a ieri, il dominio era concentrato nelle mani di AWS, Microsoft Azure e, a distanza, Google Cloud. Ma oggi le architetture si stanno frammentando, le esigenze verticali crescono, e il mercato chiede soluzioni più flessibili, ibride, spesso orientate all’edge computing. Oracle, che fino a ieri sembrava l’ultima della classe in questa corsa, ha fatto una cosa che solo i CEO più intelligenti osano fare: si è fermata, ha guardato le regole del gioco e ha deciso di cambiarle.
Ha smesso di inseguire la crescita a ogni costo e ha iniziato a costruire ecosistemi profondi, integrati, blindati. Ecco perché i clienti arrivano. Ecco perché i contratti superano i 30 miliardi. Non per moda, ma per necessità.Nessun altro dei big tech ha scelto di comunicare una notizia simile in modo così dissonante. Nessun keynote, nessuna diretta streaming, nessun tweet virale. Solo una nota formale, fredda, buttata lì come se nulla fosse, ma sufficiente a incendiare i mercati. È una lezione di comunicazione inversa, un capolavoro di understatement strategico. Un esempio di come anche nel mondo più cinico dei boardroom e dei bilanci, si possa ancora raccontare una storia con intelligenza, ironia e una punta di arroganza ben calcolata.
Il punto, però, è capire cosa accadrà adesso. Se Oracle ha davvero firmato contratti in grado di generare 30 miliardi l’anno entro il 2028, sta dicendo al mercato che ha trovato il suo punto di leva definitiva. Un po’ come Tesla quando ha annunciato le sue gigafactory, o Apple quando ha progettato la transizione ai chip M1. Non è solo un balzo di ricavi, è una trasformazione del modello operativo, un colpo secco all’immagine ormai vetusta dell’azienda. È Oracle che si reinventa da impero legacy in piattaforma abilitante per il futuro della data governance e dell’AI cloud-native. È un’operazione chirurgica di riposizionamento semantico e infrastrutturale.
Attenzione: il Regolamento FD non obbliga le aziende a rendere pubbliche le informazioni che l’amministratore delegato comunica ai colleghi. La pubblicazione è richiesta solo quando un’azienda “divulga informazioni rilevanti non pubbliche a soggetti specifici, come analisti finanziari” o investitori. Se le aziende dovessero rendere note tutte le comunicazioni interne dell’amministratore delegato, sarebbero costrette a continue comunicazioni FD.
La cosa più affascinante? L’hanno fatto senza dire niente.