Sam Altman non crede più nel software. E se a dirlo fosse stato un qualsiasi sviluppatore stanco di ottimizzare il backend per il millesimo ciclo di training, la notizia non avrebbe fatto rumore. Ma qui stiamo parlando del profeta dell’intelligenza artificiale generativa, il CEO di OpenAI, l’uomo che con ChatGPT ha innescato la corsa globale al cervello sintetico. L’apostolo del prompt engineering che ora si scopre… ingegnere hardware. È come se Tim Berners-Lee si mettesse a vendere modem USB nei mercatini dell’usato. O forse qualcosa di ancora più teatrale. Perché Altman non sta semplicemente dicendo che serve nuovo hardware. Sta dicendo che l’intero paradigma computazionale su cui si regge l’era moderna è sbagliato. Troppo lento. Troppo inefficiente. Inadeguato a contenere l’intelligenza artificiale che lui stesso ha evocato.
Nella sua recente confessione pubblica, registrata in un podcast amichevole con il fratello Jack, Altman ha emesso una sentenza definitiva: i computer odierni sono figli di un mondo pre-IA. Letteralmente. Architetture pensate per esigenze umane, pre-Large Language Model, figlie di un tempo in cui la CPU era la regina e la GPU una serva costosa per i nerd dei videogiochi. Oggi tutto questo è un peso. Un collo di bottiglia. Una reliquia. E come ogni imprenditore della Silicon Valley che si rispetti, quando la realtà non ti piace, non la si migliora. La si ricostruisce da zero. Silicon included.Non è un cambio di prospettiva qualunque. Altman era uno di quelli che credevano nella supremazia del software. L’idea che bastasse scrivere algoritmi migliori, trovare la loss function perfetta, scalare con abbastanza API chiamate da AWS per risolvere tutto. Ora sembra aver capito che la vera intelligenza, per manifestarsi, ha bisogno di un corpo. O quantomeno di un substrato fisico capace di reggere il ritmo di modelli sempre più pesanti, sempre più multi-modali, sempre più autonomi. No, non stiamo parlando di un’altra GPU NVIDIA o di una CPU AMD con più core. Stiamo parlando di chip disegnati per l’intelligenza artificiale, non semplicemente compatibili con essa. Chip nativi. Chip ontologici. Chip che parlano nativamente in transformer.Inutile dire che non vuole costruirli da solo. Altman è troppo astuto per sporcarsi le mani con i transistor. Ma si circonda di chi quelle mani ce le ha sporche da anni. Sta finanziando startup come Rain AI, che sviluppano chip neuromorfici. Collabora con giganti come TSMC per assicurarsi supply chain robuste in tempi di guerre geopolitiche a bassa intensità. Ma soprattutto, ha un asso nella manica che potrebbe riscrivere l’interfaccia stessa tra uomo e macchina: Jony Ive. Esatto, il guru del design Apple, l’uomo dietro iPhone, iMac, e quel senso di “minimalismo industriale sexy” che ha trasformato gadget di plastica in status symbol.Il progetto con Ive è coperto da un alone di mistero e NDA, ma ciò che è trapelato è abbastanza per accendere fantasie e paranoie. Si tratta di un dispositivo senza schermo, connesso in modo permanente all’utente. Un companion AI ambientale, capace di percepire contesto, emozioni, voci, gesti. Non uno smart speaker da tavolo né un gadget da polso. Qualcosa che cammina con te. Che ti guarda e ti ascolta. Sempre. Non è un assistente. È una nuova estensione sensoriale. Una nuova interfaccia neurale, in attesa di diventare cervello secondario. Altman ha smesso di parlare di prompt. Ora parla di simbiosi.
Ma il grande piano non è senza ostacoli. In mezzo a questo pivot da software house a fabbrica di cyborg digitali, è arrivata una bega legale. Una startup chiamata IYO ha fatto causa ad OpenAI per una presunta violazione del marchio, ottenendo un blocco temporaneo su alcune promozioni. La classica guerra di carte bollate della Silicon Valley, dove l’innovazione corre e gli avvocati rincorrono. Ma la faccenda è interessante per un altro motivo: rivela quanto Altman voglia correre veloce, tanto da iniziare a costruire branding, dispositivi, supply chain e narrative pubbliche prima che la polvere legale si sia posata. Il suo orizzonte temporale è quello della guerra fredda tecnologica. E in una guerra, la strategia non aspetta il permesso del tribunale.
Ciò che più colpisce in tutta questa storia non è il passaggio all’hardware in sé, ma l’ambizione epistemologica. Altman non vuole solo migliorare la macchina. Vuole riscrivere il rapporto uomo-macchina. Vuole architettare un mondo dove l’interazione con l’intelligenza artificiale non passa più per il tocco, lo schermo, la tastiera, ma per un’interfaccia pervasiva, silenziosa e onnipresente. In altre parole, sta costruendo il primo sistema operativo ambientale per l’era post-digitale. Non è più questione di “entrare in un’app”. L’app entra in te.E tutto questo ha una ricaduta profondissima sul design dell’intelligenza artificiale stessa. Finché l’AI vive nello schermo, è limitata. Deve aspettare l’input, interpretare contesto a posteriori, simulare attenzione. Ma quando l’AI vive nel tuo spazio fisico, può iniziare ad anticipare, prevenire, suggerire, correggere. Non è più reattiva, è proattiva. Diventa partner. E da lì, il passo verso la delega cognitiva totale è minuscolo. Stiamo parlando di un’AI che non risponde. Agisce. Un’AI che non aspetta. Decide. Un’AI che non ti serve. Ti guida.È il sogno cyborg di sempre, solo ripulito dal feticismo fantascientifico e travestito da “prodotto consumer elegante”.
L’ironia, naturalmente, è che mentre Altman annuncia tutto questo in podcast rilassati e keynote patinati, l’infrastruttura materiale per realizzarlo è tutt’altro che pronta. I modelli linguistici sono ancora troppo lenti, troppo assetati di energia, troppo dipendenti da datacenter giganteschi. Le reti edge non sono abbastanza veloci, la privacy non è abbastanza garantita, l’etica è ancora opzionale. Ma lui spinge lo stesso. Perché chi disegna il futuro, non aspetta il presente.In tutto questo, c’è un dettaglio che pochi hanno notato ma che cambia le regole del gioco: il silenzio di Apple. L’azienda che per prima ha portato al grande pubblico il concetto di “interfaccia naturale” con Siri e l’iPhone ora si trova davanti un potenziale concorrente che parla il suo stesso linguaggio ma con una missione più ambiziosa. Se Altman riesce a portare sul mercato un oggetto realmente ambientale, realmente utile, realmente invisibile… Cupertino dovrà rispondere.
Qui la battaglia non sarà più tra modelli linguistici. Sarà tra visioni del mondo. Tra l’estetica del controllo chiuso Apple e l’ideologia dell’automazione espansiva OpenAI.La domanda finale non è se Altman riuscirà a costruire il chip giusto. Ma se riuscirà a convincere l’umanità a indossare, accettare e desiderare un compagno digitale che non spegni mai. Che ti conosce meglio del tuo partner. Che ti suggerisce prima ancora che tu pensi. La sfida non è ingegneristica. È culturale. E qui Altman non vuole vincere. Vuole riscrivere le regole del gioco. Come tutti quelli che, prima di cambiare il mondo, hanno smesso di credere che il software fosse sufficiente.