È quasi comico, se ci pensi. Adobe, la regina dell’editing tradizionale, ora ti chiede di fare “clip clop” davanti al microfono per generare l’effetto sonoro perfetto di un cavallo che cammina. Benvenuti nell’era in cui il futuro del filmmaking si gioca a colpi di onomatopee. Certo, dietro questa trovata apparentemente ludica si nasconde un progetto molto più ambizioso e, come sempre quando Adobe muove le pedine, non è solo una questione di creatività, ma di controllo del mercato. La nuova funzione Generate Sound Effects di Firefly, lanciata in beta, è il passo più sfacciato nella direzione di un ecosistema chiuso, raffinato, che punta a fagocitare ogni frammento del processo creativo audiovisivo. Non è più solo un text prompt, non basta più digitare “hooves on concrete” e sperare che l’algoritmo faccia il resto. Devi interagire, devi mettere la tua voce, il tuo ritmo, come se Adobe stesse dicendo al creator “sei tu il vero strumento musicale, ma io sono il direttore d’orchestra”.
Questa ossessione per la precisione temporale, con un’interfaccia che imita la timeline di Premiere, non è un vezzo tecnico. È il tentativo, neanche troppo velato, di sottrarre terreno ai modelli rivali, Google in primis. Veo 3 è potente, sì, ma non ti dà il piacere quasi infantile di fare “zip” per un effetto cerniera o di sincronizzare i tuoi “crack” con i rami che si spezzano. È un meccanismo di engagement geniale, quasi psicologico, che trasforma l’utente in co-creatore emotivo. Non generi solo un suono, ti ci affezioni. Lo scegli tra quattro varianti come se fossero caramelle, e alla fine ti convinci che solo lì, su Firefly, potrai ottenere quella fusione perfetta tra intenzione umana e output AI.
Il vero colpo, però, non è l’audio. È il controllo video. L’aggiunta di Composition Reference e dei keyframe di inizio e fine è un salto strategico che pochi stanno valutando nella giusta prospettiva. Non è una semplice feature per risparmiare tempo; è il primo passo verso un reverse-engineering creativo dove il video non nasce più da un’idea scritta, ma da un collage ragionato di riferimenti visivi che Firefly traduce in linguaggio algoritmico. Tradotto: Adobe vuole rendere il text prompt un accessorio, non il centro della creazione. Perché? Perché un flusso di lavoro ibrido, basato su reference footage, ti incatena al suo software in modo molto più sottile di quanto non faccia un generatore puro come quelli di OpenAI o Google.
E poi c’è l’aspetto più gustoso, quello che fa storcere il naso ai puristi dell’arte: i preset di stile. Claymation, anime, vector art… un parco giochi visivo che sembra quasi ironico se pensi al blasone di Adobe come “serio” fornitore di strumenti professionali. Qualcuno dirà che il risultato è deludente, e in parte è vero — il claymation sembra uscito da un videogioco del 2002 — ma chi ha detto che Adobe stia puntando solo alla qualità dell’output? Qui la partita è politica, è strategica. La disponibilità futura di questi controlli su modelli di terze parti è un segnale chiaro: Adobe non vuole vincere la guerra dei modelli generativi, vuole diventare l’hub, il punto obbligato di transito per chiunque produca contenuti video con AI.
Alexandru Costin lo ha detto chiaramente, anche se in forma elegante: Firefly potrebbe presto controllare anche modelli rivali. È un messaggio sottile ma potentissimo per i professionisti del settore: non importa se il tuo modello di fiducia si chiama Veo, Sora o qualunque altra creatura AI, se vuoi pipeline di editing integrate e un output che rispetti tempi, stili e reference, prima o poi dovrai passare da Adobe. È lo stesso gioco che hanno fatto con Photoshop decenni fa, solo aggiornato all’era dell’intelligenza artificiale.
Il lato ironico? Mentre i concorrenti investono miliardi per spingere i limiti del generative video, Adobe ti mette in mano un microfono e ti dice di fare “clip clop”. Ma è proprio questo il genio. Ti distrae con il gioco mentre costruisce, pezzo dopo pezzo, il monopolio dell’intera filiera creativa.