Scena uno: un CEO con la voce di un clone AI che si sveglia in un letto IKEA, circondato da avatar generati da prompt che discutono se lasciare Meta o aprire una startup nel metaverso. No, non è un sogno febbrile post-Singularity. È l’incipit di una serie animata creata in meno di cinque minuti su Showrunner, la piattaforma lanciata da Fable, una startup backed by Amazon Alexa Fund, che promette di farci diventare tutti autori, registi e doppiatori di una nuova ondata di contenuti animati generati dall’intelligenza artificiale.

Parliamo di un Netflix incrociato con ChatGPT, fatto con il codice invece che con le telecamere. L’industria la chiama “generative storytelling”. I critici lo chiameranno “un abominio interattivo”. I venture capitalist, ovviamente, lo chiamano “il futuro dell’intrattenimento”. E quando Amazon mette un piede pardon, un miliardo in un settore, il mondo si ferma ad ascoltare. O almeno ad alzare un sopracciglio digitale.

Fable nasce dall’esperienza di Edward Saatchi e del compianto Pete Billington, figura seminale nella narrativa immersiva che già con The Wolves in the Walls aveva sdoganato l’idea che le storie potessero circondarci. La loro nuova scommessa, Showrunner, si piazza in quel terreno accidentato dove il desiderio di protagonismo dell’utente si scontra con i diritti di proprietà intellettuale, il gusto estetico e, francamente, il buonsenso.

L’utente inserisce un prompt o carica una foto. In pochi minuti, riceve un episodio animato completo di voci, personaggi personalizzati e narrazione. Il modello genera automaticamente trame e dialoghi, come se un writer room di Los Angeles fosse stato ibernato, clonato e ridotto a un plugin cloud. I titoli di lancio? Exit Valley, una parodia in stile Family Guy delle icone tech di Silicon Valley, e Ikeworld, romcom surreale ambientata in un universo alternativo di scaffali e lampade svedesi. Satira e romanticismo, in formato pixel.

Eppure, l’industria si trova spaccata. Perché da una parte c’è la meraviglia tecnologica, l’emozione puerile del “guarda cosa posso fare con un prompt”. Dall’altra, c’è il terrore dell’erosione autoriale, la disintegrazione dell’identità narrativa e, ovviamente, i problemi legali che solo l’avvocato di Disney potrebbe risolvere senza sudare.

La questione dei diritti è un campo minato. Saatchi ha dichiarato che Fable sta trattando con studi per costruire modelli addestrati su IP tradizionali, tipo Star Wars, dove gli utenti potrebbero generare contenuti pagando, ma sempre con licenza e revenue sharing verso i detentori. Tradotto: giochi con Luke Skywalker solo se paghi l’ingresso e ti ricordi che ogni tuo fotogramma è proprietà di Topolino.

Il punto centrale, però, è un altro. È quello che Saatchi stesso ammette candidamente: “Forse nessuno vuole davvero questo tipo di storytelling”. Ed è qui che la faccenda si fa interessante. Perché mentre Hollywood discute su quanto l’AI debba entrare nella filiera produttiva, e l’India si infiamma per un finale di film alterato con l’AI senza il consenso del regista, Fable spinge una narrazione diversa: quella in cui non siamo più spettatori passivi ma co-creatori, showrunner istantanei con una tastiera e un sogno.

Il problema è che i sogni generati su piattaforme come Showrunner spesso somigliano più a un incubo uncanny valley che a una narrazione ben costruita. Sì, il tool può sfornare una sitcom surreale o un thriller romantico su una scarpiera IKEA, ma può anche generare caos narrativo, cliché, esecuzioni mediocri e la fastidiosa sensazione che tutto sia un gigantesco esperimento da beta test.

Lo ammettono anche loro: non si tratta solo di premere un bottone. Il futuro, dicono, non è nel prompt casuale, ma nel “coherent playable storyworld”. Mondi coesi, progettati con cura, dove l’intelligenza artificiale è strumento, non motore unico. Come dire: possiamo avere la tavolozza infinita, ma se non sappiamo disegnare, verrà fuori sempre e solo uno scarabocchio con i glitter.

Eppure il mercato, come sempre, non aspetta che i dilemmi etici vengano risolti. Con oltre 100.000 utenti in lista d’attesa e una versione alpha già usata da 10.000 creatori, il modello di business è chiaro: la visione resta gratuita, ma per generare contenuti servono crediti. Dieci o venti dollari al mese e puoi creare decine di scene animate. Un abbonamento Netflix dove però tu sei il regista. E lo sceneggiatore. E la controfigura.

Chiariamo: questo non è un gioco. È il punto di collisione tra la democratizzazione della creatività e l’industrializzazione dell’intrattenimento. Un’era dove la distinzione tra autore e spettatore si sfuma fino a scomparire. Dove anche il contenuto diventa prodotto personalizzato, tagliato su misura da un algoritmo.

Il paradosso? Proprio mentre Showrunner punta tutto sull’interattività generativa, Hollywood combatte per difendere l’anima dell’autorialità. Gli sceneggiatori, i registi, i doppiatori sindacalizzati si domandano se valga ancora la pena scrivere un copione quando un prompt può farlo in trenta secondi. Ma il problema non è solo sindacale. È esistenziale.

Perché se tutti possono essere creatori, chi sarà spettatore? E se ogni storia è generata, remixata, adattata all’infinito, esiste ancora qualcosa come “l’originale”? La risposta, probabilmente, è che non importa. Il pubblico si abituerà. Come si è abituato alla CGI, al green screen, al binge watching, ai deepfake, e agli influencer virtuali. Come si è abituato a vivere in uno scroll infinito, in cui ogni contenuto vale solo per il tempo di uno swipe.

Nel frattempo, la Spagna cavalca la rivoluzione con The Great Reset, un film interamente prodotto con AI presentato al Berlinale. Altro che cortometraggio da studenti, qui si parla di lungometraggi distribuiti globalmente, senza attori, senza set, senza troupe. Solo un regista, un’idea e una batteria di modelli generativi. Il futuro non è alle porte. È già sul red carpet.

Showrunner, insomma, non è solo una piattaforma. È un test di stress per la narrativa umana. Un esperimento culturale vestito da startup. Una provocazione che chiede al pubblico se preferisce guardare storie oppure crearle. Se vuole essere raccontato oppure raccontare. È possibile che non funzioni. È possibile che nessuno voglia davvero questa libertà creativa. Ma è anche possibile che, tra un episodio di Ikeworld e una parodia su Elon Musk, il pubblico scopra una nuova forma di linguaggio.

Forse è un’utopia generativa. Forse è solo l’ennesimo capitolo di un’industria che corre più veloce della propria ombra. O forse è semplicemente inevitabile. Come ogni nuova tecnologia che promette potere creativo alle masse, ha il potenziale per creare arte. E il rischio concreto di produrre solo rumore.