Benvenuti nella nuova guerra fredda dei dati. L’annuncio di Oracle non è soltanto una dichiarazione tecnica, è un messaggio strategico lanciato al cuore pulsante del cloud globale: Oracle Globally Distributed Exadata Database su infrastruttura Exascale entra in scena con l’eleganza spietata di chi sa di poter cambiare le regole del gioco. Basta con i database patchwork, gli script di sincronizzazione scritti a notte fonda e le architetture Frankenstein costruite su più continenti con chewing gum e riti voodoo. Ora esiste un nuovo standard, un paradigma serverless e iperelastico che promette di distribuire, archiviare e sincronizzare dati su scala mondiale, come se fossero nello stesso rack.
Sembra fantascienza, ma non lo è. È semplicemente ciò che succede quando si combina l’ingegneria brutale di Exadata con il sogno di ogni CIO: un database realmente always-on, con replica Raft integrata, resilienza da bunker nucleare e la capacità di scalare su e giù come un ascensore in preda a una crisi d’identità. L’unica cosa che non può scalare? Il numero di scuse che resteranno valide per chi non riesce a garantire continuità operativa e velocità istantanea. Le applicazioni mission-critical ora possono sopravvivere a qualsiasi disastro, blackout o, per restare nella cronaca, a qualunque sysadmin con il lunedì storto.
Per capire la portata del cambiamento, basta leggere tra le righe le parole di PayPal, una delle aziende più sensibili alla performance e alla resilienza del proprio stack tecnologico. Akash Guha, non un marketer ma un ingegnere, lo dice chiaro: intendono passare a questa nuova architettura per garantire risposte più rapide, maggiore resilienza e costi ridotti. Tre desideri che sembrano utopia, a meno che non si utilizzi un database distribuito che fa sembrare magiche anche le operazioni più complesse.
Ma facciamo un passo indietro. Qual è l’essenza di questo nuovo Oracle Globally Distributed Exadata Database? È un’infrastruttura che prende il modello Exascale, lo declina in una logica serverless e lo estende orizzontalmente su più regioni OCI (Oracle Cloud Infrastructure) come se la latenza non esistesse e i problemi di compliance fossero solo un brutto ricordo del passato. La residenza dei dati, quel vincolo che ha messo in crisi intere aziende fintech e sanitarie, diventa una variabile automatizzata. Il sistema decide dove piazzare i dati, come sincronizzarli, come proteggerli. L’umano non deve più intervenire, deve solo fidarsi.
E fidarsi, in questo caso, sembra sensato. Perché l’architettura include una Active/Active/Active distribuita su più datacenter, con zero data loss e failover immediato. Non è solo business continuity, è una specie di immortalità digitale che sposta l’asticella di cosa significhi affidabilità nel cloud. I CIO possono finalmente dormire la notte, gli sviluppatori possono dimenticare le pagine di Stack Overflow sulle query geo-distribuite, e i compliance officer possono respirare sapendo che i dati restano dove devono stare, anche se l’azienda è globale e i clienti parlano venti lingue diverse.
Sul piano delle prestazioni, Oracle ha tirato fuori il martello pneumatico. Il sistema gestisce carichi di lavoro AI agentica su scala petabyte, elabora transazioni al secondo a ritmi da borsa di Tokyo in piena crisi valutaria, e supporta analytics in tempo reale senza dover impiantare costosi data lake o reinventare la ruota ad ogni ciclo di sviluppo. Non è una piattaforma, è un layer planetario per chi fa AI a livelli patologici. Per chi non si accontenta di machine learning ma spinge sulla generazione autonoma di insight, azioni, e decisioni automatiche.
La differenza qui non è solo di scala. È di astrazione. Perché mentre gli altri cloud vendor ti vendono componenti da assemblare con mille permessi IAM e con la promessa che tutto funzionerà se fai le cose per bene, Oracle promette di toglierti l’onere stesso di doverci pensare. È come se Tesla avesse venduto una Model S in grado di guidare su Marte, ma senza darti mai il volante.
Wei Hu, SVP High Availability Technologies di Oracle, lo ha detto con disarmante chiarezza: vogliono abbattere il costo e la complessità della distribuzione globale dei database. E per una volta, l’affermazione non suona come marketing. L’approccio serverless, pay-per-use, elastico e centralizzato risponde davvero alle esigenze di chi oggi costruisce applicazioni AI distribuite su continenti diversi, con utenti che si aspettano prestazioni perfette ovunque, subito.
Holger Mueller di Constellation Research va oltre: vede in questa architettura la chiave per rendere l’intelligenza artificiale agentica realmente globale, realmente operativa, realmente regolamentata. Tradotto: i task avviati da agenti AI, come bot autonomi, sistemi decisionali complessi o motori di raccomandazione, possono ora girare in sicurezza e con piena compliance in ogni parte del mondo. Il sogno di ogni CEO che non vuole finire in una conferenza stampa per violazione del GDPR.
Ecco il punto: Oracle non sta solo costruendo un’infrastruttura. Sta offrendo un’arma strategica. In un contesto in cui i dati sono il nuovo petrolio e l’intelligenza artificiale è il nuovo esercito, chi controlla l’infrastruttura distribuita vince. E lo fa con un linguaggio non più limitato alle righe di codice, ma espresso in latenza ridotta, ridondanza geografica, e throughput al millisecondo. Un linguaggio che gli agenti AI capiscono benissimo.
La concorrenza farà finta di nulla. Amazon e Microsoft continueranno a parlare di interoperabilità, multicloud e DevOps collaborativi, mentre Oracle scommette su un modello verticale e deterministico, da impero bizantino del cloud: tutto integrato, tutto ottimizzato, tutto blindato. E in un’epoca in cui i CIO si svegliano ogni mattina con un report di breach o una nuova regolamentazione, forse è esattamente ciò di cui hanno bisogno.
Quindi sì, Oracle ha messo in campo il suo candidato alla presidenza del cloud globale. Ed è un candidato arrogante, potente, e perfettamente consapevole di poter conquistare territori dove altri ancora litigano sulle pipeline. Il Globally Distributed Exadata Database non è un semplice servizio: è un manifesto tecnologico. E la partita è appena cominciata.
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