La notizia che OpenAI stia chiedendo a Meta di consegnare prove su eventuali piani coordinati con Elon Musk e xAI per tentare un’acquisizione da 97 miliardi di dollari della stessa OpenAI è la perfetta fotografia di come la geopolitica dell’intelligenza artificiale stia diventando un misto di guerra fredda e reality show. In apparenza parliamo di un normale contenzioso legale, ma la sostanza è ben più corrosiva: si tratta di chi controllerà l’infrastruttura cognitiva del XXI secolo. Musk che scrive a Zuckerberg per valutare accordi di finanziamento, Meta che si ritrova chiamata in causa come potenziale pedina di scambio, OpenAI che nel frattempo cerca di difendere la sua trasformazione in public benefit corporation per garantirsi capitali freschi e un futuro in Borsa. Tutti fingono di essere custodi di una “missione per l’umanità”, mentre la posta in gioco è il controllo di un mercato che potrebbe valere centinaia di miliardi di dollari l’anno.
Non è un dettaglio irrilevante che nel 2023 Meta avesse fissato come ossessione interna il superamento di GPT-4, salvo poi arrivare al 2025 con modelli dichiaratamente inferiori agli standard di frontiera. Zuckerberg, noto per trasformare ogni ritardo tecnologico in una guerra di reclutamento, ha risposto arruolando alcuni dei migliori cervelli di OpenAI, inclusi i creatori originari di ChatGPT. Chi immagina la Silicon Valley come un laboratorio di innovazione dovrebbe aggiornare la metafora: oggi sembra più un mercato nero di talenti, dove i miliardi di dollari servono a strappare le persone giuste al concorrente piuttosto che a finanziare vera ricerca di base. Meta ha persino riversato 14 miliardi in Scale AI, un’operazione che suona come disperato tentativo di acquistare infrastrutture e dataset per compensare un ritardo percepito come esistenziale.
Musk da parte sua continua a muoversi come agente del caos, prima dichiarando battaglie fisiche contro Zuckerberg e poi, in segreto, esplorando possibilità di co-investimento con lo stesso rivale. Per un imprenditore che ama presentarsi come il difensore della trasparenza e della lotta contro l’AI “chiusa”, l’idea di trattare dietro le quinte per comprare OpenAI insieme al suo nemico giurato appare quantomeno grottesca. Si direbbe che la narrativa “open source contro chiusura proprietaria” serva solo a distrarre, mentre le vere mosse vengono giocate nei corridoi legali e finanziari. OpenAI, dal canto suo, rifiuta l’offerta miliardaria, ma sa che dovrà fronteggiare un contenzioso capace di rallentare o complicare la sua corsa verso l’IPO. Una mossa perfetta per chi vuole logorare dall’esterno un concorrente che non riesce a battere sul piano tecnologico.
È interessante osservare come Meta, pur opponendosi alla richiesta di documenti, non neghi categoricamente i contatti tra Musk e Zuckerberg. Si rifugia in argomenti procedurali, sostenendo che sia Musk stesso a poter fornire le informazioni. È un linguaggio che nel mondo corporate equivale a un mezzo sorriso: “forse c’è stato qualcosa, ma non vediamo perché dovremmo darvi le prove”. Intanto, l’ecosistema percepisce la sola idea di un’alleanza Musk-Zuckerberg come una minaccia strutturale. Non per il rischio di effettiva riuscita dell’operazione, ma perché dimostra che perfino i rivali storici, quando si tratta di AI, possono trovare un terreno comune. La paura di OpenAI non è infondata: chi controlla i flussi di capitale e i laboratori di ricerca può dettare i tempi della rivoluzione cognitiva.
C’è un lato ironico in tutto questo. Per anni gli osservatori hanno accusato OpenAI di aver tradito la sua missione “open” passando a una struttura for-profit, e ora la stessa scelta di diventare public benefit corporation è al centro di una causa intentata da uno dei suoi fondatori. In realtà, questo tipo di transizione è quasi inevitabile in un settore dove addestrare modelli costa miliardi in GPU e energia. Musk lo sa, Meta lo sa, chiunque faccia sul serio lo sa. La differenza è che pochi ammettono apertamente che l’AI non è più un laboratorio accademico, ma un’infrastruttura geopolitica che richiede capitali quasi paragonabili a quelli dell’industria bellica. L’ipocrisia serve a mantenere la narrativa pubblica, a vendere la favola che questi colossi stiano lavorando per il bene comune mentre in realtà cercano di consolidare monopoli.
Il contenzioso legale tra Musk e OpenAI, con Meta nel ruolo di terzo incomodo, è solo un frammento di un quadro molto più ampio. Nel prossimo decennio assisteremo a una concentrazione sempre più brutale del potere cognitivo nelle mani di poche aziende. Ognuna fingerà di lottare per principi etici, ma dietro le quinte stringerà alleanze tattiche con ex nemici pur di non restare esclusa dalla corsa. Se a qualcuno sembrava surreale l’idea di un cage match tra Musk e Zuckerberg, basti guardare al ring vero: non è fatto di guantoni e telecamere, ma di carte legali, capitali miliardari e la capacità di riscrivere le regole stesse della società digitale.