La vera domanda sull’intelligenza artificiale non è “cosa può fare”, ma “chi ascolta davvero i lavoratori”
C’è un dettaglio che sfugge alle menti ossessionate dal prossimo modello di linguaggio o dalla corsa spasmodica ai miliardi di dollari in venture capital. L’intelligenza artificiale non vive nel vuoto, ma nel posto più scomodo possibile: la testa e la quotidianità delle persone che la subiscono, la adottano, la temono e, soprattutto, la desiderano come strumento e non come predatore. La Stanford University ha appena fatto il gesto più eversivo che si possa immaginare in questa stagione di hype tossico: chiedere a 1.500 lavoratori e a esperti cosa vogliono davvero. Non ai founder di Silicon Valley, non ai venture capitalist, ma a chi ogni giorno si gioca la carriera tra Excel, riunioni infinite e scadenze che arrivano puntuali come le tasse. E la risposta è stata chiara, netta, quasi irriverente nei confronti della narrativa dominante.
Il mito della sostituzione totale vacilla. L’idea che l’automazione del lavoro si traduca in una legione di disoccupati che osservano macchine creative produrre romanzi, codici e campagne pubblicitarie non convince nessuno, se non i predicatori del capitalismo algoritmico. Quello che i lavoratori vogliono è altro: partnership. Compagni di squadra artificiali, non surrogati. Più del 45 per cento delle occupazioni intervistate ha dichiarato di preferire un modello che Stanford ha battezzato con un nome da fantascienza burocratica, “partnership paritaria H3”. Tradotto: l’IA fa il suo pezzo, io faccio il mio, insieme costruiamo un output che ha senso. Solo il 17 per cento delle attività creative ha ottenuto punteggio positivo per la piena automazione. È un dato che spiega meglio di mille editoriali perché ChatGPT non ha reso obsoleto lo scrittore né MidJourney il fotografo. La gente non vuole l’arte artificiale, vuole un alleato che tolga di mezzo le scartoffie.
Gli investimenti, però, vanno da un’altra parte. Ed è qui che si apre la frattura più profonda. Mentre i lavoratori chiedono sollievo dalla ripetizione ossessiva dei compiti banali, quasi il 41 per cento dei finanziamenti alle startup si concentra su segmenti in cui i lavoratori non vogliono automazione o, peggio ancora, in cui la fattibilità tecnica è prossima allo zero. Una dissonanza cognitiva finanziata a colpi di miliardi. Gli investitori amano le visioni grandiose, il sogno della macchina che pensa, crea, sostituisce e rende irrilevante la carne e il sangue. I lavoratori, invece, si accontenterebbero volentieri di un algoritmo che compili report settimanali, programmi riunioni senza errori e tenga in ordine i database senza stress. È come se a una persona assetata offrissi champagne millesimato quando chiede solo acqua fresca.
Il ribaltamento più affascinante riguarda però i salari e la percezione del valore. Chi ha venduto per anni la narrativa secondo cui la data analysis era l’oro del nuovo millennio si trova oggi davanti a un grafico che ribalta la gerarchia. I compiti un tempo ben retribuiti, legati all’analisi dei dati, stanno perdendo valore sul mercato perché le macchine li gestiscono con crescente efficienza e costi marginali prossimi allo zero. Al contrario, le competenze che nessun modello generativo riesce a replicare con autenticità, come la comunicazione interpersonale e la capacità di formare gli altri, stanno guadagnando peso. Una piccola vendetta darwiniana contro i profeti del machine learning che avevano decretato la fine della soft skill. È quasi ironico: mentre i big data si trasformano in commodity, la capacità di spiegare con chiarezza a un collega cosa stai facendo diventa merce rara.
E poi c’è la dimensione della libertà. Quasi il 70 per cento dei lavoratori intervistati ha espresso un desiderio semplice, quasi banale, ma potentissimo: che l’intelligenza artificiale automatizzi il lavoro ripetitivo così da potersi concentrare su compiti di alto valore, ridurre lo stress e preservare il controllo creativo. Non chiedono licenziamenti, chiedono tempo. Non domandano sostituzione, invocano emancipazione. La retorica della conquista dell’IA, quella che vuole le macchine impegnate a spodestare professionisti e creativi, appare ridicola se confrontata con ciò che la forza lavoro chiede davvero. Non l’IA che dipinge tele o compone sinfonie, ma quella che “spazza i pavimenti”. Non è metafora: significa togliere dal tavolo la fatica inutile, per lasciare spazio al pensiero che conta.
Chi vorrà ascoltare questo messaggio comprenderà che il futuro non è scritto nelle sale riunioni dei fondi di investimento, ma nella negoziazione silenziosa tra chi lavora e gli strumenti che utilizza. Le aziende che capiranno che la collaborazione uomo IA è il terreno più fertile non saranno solo più competitive, saranno più desiderabili come datori di lavoro. Perché la vera battaglia non è per la produttività marginale, ma per l’attrattività. In un mercato in cui i talenti scelgono dove lavorare più di quanto le aziende possano scegliere chi assumere, dare agli esseri umani compagni di squadra artificiali invece di nemici da temere diventerà un vantaggio competitivo letale.
Chi ancora si illude che basti riversare miliardi in automazione radicale finirà per costruire castelli tecnologici che nessuno userà. Gli strumenti più rivoluzionari saranno quelli invisibili, quelli che liberano spazio mentale invece di occupare copertine mediatiche. La contraddizione è lampante eppure ostinatamente ignorata: la Silicon Valley investe in artisti digitali, ma i lavoratori vogliono bidelli digitali. E non c’è venture capitalist al mondo che possa riscrivere questo dato senza sembrare un illusionista da fiera.
Il punto non è più se l’intelligenza artificiale prenderà i nostri posti di lavoro. Il punto è se chi la sviluppa e chi la finanzia avrà il coraggio, e l’umiltà, di ascoltare chi lavora davvero. Perché il futuro, a sorpresa, non sarà scritto dal prossimo modello multimodale, ma da un algoritmo che fa bene la cosa meno sexy di tutte: togliere di mezzo la noia.