Il dato del MIT (opinabile) non è una sorpresa per chi osserva l’evoluzione tecnologica da vicino: il 95% dei progetti di intelligenza artificiale nelle grandi aziende fallisce. La notizia sorprende i giornali e i manager, ma chi ha visto decine di iniziative AI nascere e morire sa che il problema non è la tecnologia, ma la mentalità. Ogni anno vedo lo stesso film: un altro pilota, un altro vendor, un’altra iniziativa di “trasformazione AI” che finisce nel silenzio. Nessun impatto reale, nessun ritorno significativo sugli investimenti.
Fear Economy o realta?
Secondo un recente articolo del Financial Times, le preoccupazioni riguardo al ritorno sugli investimenti nell’intelligenza artificiale (AI) sono in aumento. Nonostante l’entusiasmo iniziale, i risultati finanziari non hanno giustificato l’enorme capitale investito. Le aziende tecnologiche hanno incrementato significativamente le loro spese in capitale, ma i ritorni sugli investimenti in AI rimangono minimi. Ad esempio, Microsoft e OpenAI hanno registrato aumenti significativi nei ricavi legati all’AI, ma questi restano relativamente piccoli rispetto all’investimento complessivo. Inoltre, l’uso dei chatbot AI da parte dei consumatori è aumentato, ma solo circa il 3% degli utenti paga per il servizio. Questo evidenzia un divario tra l’investimento in AI e il potenziale di ricavo, suggerendo che l’attuale “boom” dell’AI non ha ancora prodotto i ritorni finanziari necessari per giustificare l’enorme spesa in capitale.
Forbes discute i sette errori fatali che portano al fallimento dei progetti di AI nelle imprese. Tra questi, si evidenziano la mancanza di una pianificazione adeguata, l’assenza di una strategia chiara, l’insufficiente qualità dei dati e la resistenza al cambiamento organizzativo. Le aziende che affrontano questi problemi con una pianificazione adeguata e una gestione attenta hanno maggiori probabilità di successo nell’implementazione dell’AI .
La paura distorce la razionalità economica. Il fenomeno ha radici storiche: basta pensare alle bolle tecnologiche degli anni ’90 o alle crisi finanziarie guidate dal panico. Solo che oggi la paura viaggia in tempo reale, amplificata dagli algoritmi di social media e news AI-driven, che esagerano rischi e scenari negativi.
Tuttavia, non tutto nella Fear Economy è negativo. Le aziende più consapevoli possono usare questa paura come leva strategica: anticipare comportamenti del mercato, sviluppare prodotti che rispondono a preoccupazioni reali e costruire reputazioni di affidabilità. In questo senso, la paura diventa uno strumento di analisi e previsione, ma solo per chi ha la disciplina e la cultura dati per non farsi travolgere dall’hype.
Ripensare l’infrastruttura operativa
Il motivo è semplice: le aziende cercano di incastrare gli agenti AI nel bucket del software umano. Questo approccio funziona per strumenti progettati per persone, ma è disastroso per entità intelligenti. Trattare un agente AI come uno strumento convenzionale significa limitarne le capacità, ostacolare la collaborazione e uccidere la scalabilità prima ancora che inizi. Gli agenti non sono tool, sono nuovi collaboratori: intelligenti, autonomi e capaci di apprendere e coordinarsi.
Se vogliamo ridurre il tasso di fallimento, occorre ripensare l’infrastruttura operativa. Un agente AI ha bisogno di un ecosistema diverso: strumenti creati per la sua natura, regole di coordinamento specifiche, metriche di performance costruite su evoluzione e collaborazione, non su output singolo. Senza questo, anche la tecnologia più avanzata resta inutile, un pilota che non decolla mai.
La metafora con Microsoft 365 è illuminante. 365 non ha solo aumentato la produttività umana, ha creato un ambiente in cui persone, strumenti e processi interagiscono armoniosamente. Gli agenti AI necessitano della stessa visione: un sistema operativo per la produttività agentica, dove gli agenti possano eseguire compiti, coordinarsi, migliorare e collaborare tra loro e con gli umani. Il fallimento non è nei modelli, ma nel design organizzativo.
Molti manager si chiedono perché gli agenti non scalano, perché non migliorano e perché non lavorano insieme. La risposta è che stiamo ancora tentando di applicare vecchi paradigmi a nuove entità. Gli agenti richiedono regole proprie, autonomia controllata e un ecosistema progettato per crescere. Chi comprende questo passaggio acquisisce un vantaggio competitivo straordinario. Chi resta ancorato a vecchi schemi continuerà a sprecare miliardi senza vedere risultati.
Le aziende che vogliono dominare la prossima era del business devono trattare gli agenti AI come una nuova forza lavoro. Servono strumenti nativi per agenti, sistemi di coordinamento inter-agent, dashboard di evoluzione continua e metriche basate su collaborazione e adattabilità. Il futuro della produttività non sarà umano o digitale: sarà ibrido, collaborativo e basato su intelligenza multipla.
La riflessione più inquietante è questa: stiamo guardando a un cambiamento di paradigma simile all’introduzione del personal computer negli anni ’80. Allora, chi ha capito come integrare PC e processi produttivi ha conquistato il mercato. Oggi, chi capirà come integrare agenti AI e organizzazioni complesse dominerà il business del futuro. Ignorare questo significa condannarsi a un ciclo infinito di progetti falliti, pilot senza impatto e vendor che vendono illusioni.
Molte aziende vedono l’AI come uno strumento di efficienza operativa. La verità è più radicale: l’AI è una nuova classe di collaboratori intelligenti. Trattarla come software convenzionale è destinato al fallimento. Gli agenti non vogliono essere programmati: vogliono essere abilitati, coordinati e messi nelle condizioni di collaborare. Solo allora la magia accade, e la produttività agentica può superare qualsiasi aspettativa umana.
I manager intelligenti iniziano a ripensare i processi, i sistemi e la cultura aziendale. La trasformazione AI non riguarda più algoritmi o machine learning, ma organizzazione, infrastruttura e governance di una nuova forza lavoro. I numeri del MIT non sono un avvertimento tecnico: sono un segnale culturale. Le aziende che lo ignorano continueranno a fallire, quelle che lo abbracciano definiranno le regole della prossima era.
Il messaggio è chiaro: il 95% di fallimento non diminuirà fino a quando gli agenti AI saranno trattati come strumenti convenzionali. L’innovazione reale richiede un cambio di paradigma radicale, un sistema operativo per agenti, un ecosistema che permetta evoluzione, collaborazione e scaling. Chi capirà questo passaggio non solo ridurrà il fallimento, ma possiederà la nuova frontiera del business.
E mentre alcune aziende continuano a ripetere gli stessi errori, altre stanno già costruendo le infrastrutture per la produttività agentica. Chi si muove oggi acquisirà un vantaggio competitivo insormontabile domani. La domanda non è più se implementare AI, ma come creare il contesto in cui gli agenti possono realmente lavorare, crescere e trasformare il business.
L’intelligenza artificiale non è più un progetto, è una forza lavoro. Trattarla come un tool significa perdere la partita prima di iniziare. La trasformazione AI richiede visione, infrastrutture dedicate e nuovi sistemi operativi. Chi lo comprende oggi, dominerà il mercato domani. Chi resta indietro continuerà a pagare il prezzo di illusioni tecnologiche, con piloti falliti e miliardi sprecati.