Alla Mostra del Cinema di Venezia quest’anno i riflettori non sono puntati solo sui film e sul red carpet, ma anche su un ospite inatteso: l’intelligenza artificiale. Non una comparsa, ma quasi una protagonista, capace di dividere platea e addetti ai lavori tra chi intravede scenari distopici e chi, invece, fiuta nuove possibilità creative. Eh si, perché autori, attori e doppiatori hanno fatto sentire la loro voce sul tema. L’accusa: l’AI rischia di “fagocitare” il talento umano, sostituire professioni artistiche e ridurre la creatività a un algoritmo di consumo.

I temi sul tavolo, d’altra parte, sono molti: la clonazione digitale di voci e volti è già realtà, così come il pericolo di piattaforme che possono sfruttare contenuti senza compensi per gli autori e i titolari dei relativi diritti.

C’è poi anche una questione più sottile, ma altrettanto cruciale: se a decidere cosa valorizzare o censurare sono i dati e chi li immette, la neutralità, ci si domanda, non rischia di diventare un’illusione? In altre parole, quello che preoccupa gli addetti ai lavori è che l’AI non solo rischia di “rubare il lavoro” ma anche di riscrivere il canone culturale con criteri opachi.

Dal palco del Lido è arrivato un messaggio chiaro: non possiamo più permetterci il “far west” digitale. Il Ministero della Cultura, da parte sua, ha introdotto criteri specifici per distinguere creatività umana e processi algoritmici, fissando paletti su consenso, compensi e uso delle tecnologie generative. Un tentativo di riportare ordine, insomma, anche se la sensazione è che la partita sia appena iniziata.

Ma Venezia non è stata solo il teatro della paura. Alcune voci hanno ricordato che l’AI non è un mostro da temere, ma uno strumento da conoscere e utilizzare. Può semplificare la produzione, ampliare le possibilità di post-produzione e persino liberare tempo per la creatività umana.

In fondo, se usata bene, l’AI potrebbe essere la “macchina da presa invisibile” che permette ai registi di osare di più, agli autori di immaginare oltre i vincoli e agli attori di concentrarsi su ciò che li rende insostituibili: l’emozione, quella vera.

Forse allora la verità sta nel mezzo: l’AI non ruberà l’anima del cinema, a meno che non gliela consegniamo noi per pigrizia o convenienza. Certo, l’idea di un algoritmo che si aggiudica il Leone d’Oro o di un replicante AI che vince la Coppa Volpi fa sorridere, ma anche riflettere.

Più che opporsi al cambiamento, il settore ha l’occasione di addestrare l’AI al rispetto della creatività, proprio come si fa con un giovane apprendista un po’ troppo entusiasta: regole chiare, limiti ben definiti e fiducia nelle capacità del maestro.

Ma per fare questo bisogna smetterla di gridare “al lupo, al lupo”. Occorre impegno, visione, strategia e comprensione. Insomma, bisogna rimboccarsi le maniche. E magari, tra qualche anno, ci accorgeremo che questo “ospite inatteso” non ha rovinato la festa, ma ha reso possibile un cinema ancora più libero e sorprendente.